Riflessi imperfetti: l’Intelligenza Artificiale debutta al MoAa a Firenze

Allucinazioni visive, glitch digitali e memorie sintetiche: il Museum of Artificial Art inaugura il 14 novembre a Firenze con una mostra di dodici artisti internazionali.

07.11.25

Glitch è una parola curiosa. Si può tradurre, in termini concettuali, con “malfunzionamento” o “anomalia”. L’aspetto più importante, tuttavia, è la transitorietà: un glitch è un errore che si manifesta e si dissolve – in modo autonomo – senza compromettere l’architettura complessiva del sistema in cui si palesa. È un’increspatura, una variazione momentanea che lascia intravedere, almeno per un istante, la struttura nascosta di ciò che lo ha generato.

Il termine possiede una lunga genealogia. Nasce quasi cento anni fa, nel linguaggio dell’elettronica e dell’ingegneria: indica quelle piccole irregolarità di segnale che disturbano una trasmissione, ma non la interrompono. Tecnicamente, parliamo di un “transiente aperiodico”, un picco breve e improvviso in una forma d'onda dovuto, per l’appunto, a un errore. Messa così, sembrerebbe una roba comprensibile solo da chi mastica matematica applicata. Ma il glitch è prima di tutto un’idea. E come tale si trasforma, cambia pelle, evolve, fino ad attraversare l’intera storia dei media.

Il malfunzionamento transitorio, infatti, colpisce qualunque architettura tecnologica: e con l’avvento dell’informatica e dei videogiochi, il glitch è diventato un’esperienza visibile. Un frammento di caos nel flusso ordinato della macchina, del software, della console. Il personaggio di un videogame che affonda nel pavimento, un’immagine che si deforma, una linea di dialogo che si ripete all’infinito: sono quei momenti in cui il codice si rivela, dove il sistema mostra la sua vulnerabilità. La realtà virtuale – che fino a poco tempo fa trovava la sua massima espressione proprio nel mondo videoludico – tradisce la sua natura di “simulazione”, deformandosi per qualche secondo.

È il déjà-vu di Matrix, per intenderci. Cito un film (e che film) di proposito. Matrix funziona come un test di Rorschach: filosofi, sociologi, psicologi e teorici dei media hanno prodotto centinaia di interpretazioni sul reale significato della pellicola, trasformando l’opera in uno specchio in cui riflettere la nostra cultura. Ecco, con le dovute proporzioni, anche il glitch funziona in modo molto simile: le tecnologie incarnano i nostri valori, i nostri desideri e – soprattutto – le nostre paure.

Oggi, nell’era dell’intelligenza artificiale, il glitch è diventato “allucinazione”. Il termine, nell’evocare un errore percettivo, fotografa un aspetto cruciale: le IA generative ci imitano più di quanto crediamo. Quando un sistema crea un’immagine incoerente, quando “ricorda” male, quando inventa fatti e informazioni per soddisfare un prompt a cui non saprebbe rispondere, sta mostrando la logica fallibile del nostro stesso pensiero. Le allucinazioni dell’IA non sono altro che glitch cognitivi, riflessi del rumore che abita anche la mente umana. Se il glitch informatico è l’errore che svela il codice, il glitch psicologico è l’errore che svela un cortocircuito della memoria. Anche la nostra coscienza, dopotutto, è un sistema tremendamente complesso. E come tale è attraversato da interferenze. Ci convinciamo di ricordare cose mai accadute, di aver visto cose che non esistono. Avete presente l’effetto Mandela, quel fenomeno in cui un gruppo di persone condivide un falso ricordo? Ecco, potremmo vederlo come un glitch dell’inconscio, come un’eco di dati corrotti. Non a caso, parliamo di un’idea nata e cresciuta su internet: se non ne conoscete la storia, ve la riassumo in poche righe.

Tutto inizia nel 2009. La scrittrice e ricercatrice Fiona Broome partecipa a una conferenza sul paranormale. Parlando con il pubblico, scopre che molte persone, come lei, ricordavano chiaramente che Nelson Mandela fosse morto in prigione negli anni ’80. Tutti i presenti condividono lo stesso ricordo, limpido, del suo funerale trasmesso in TV. Naturalmente, Mandela in realtà era vivo e vegeto. Anzi, nel ‘94 era perfino diventato presidente del Sudafrica. Così, colpita dal fatto che così tanti individui – senza legami apparenti – condividessero il medesimo falso ricordo, Broome apre un forum (mandelaeffect.com) per raccogliere altri esempi di memorie collettive errate. In pochi mesi il sito diventa virale. Le segnalazioni si moltiplicano, e con esse le più assurde spiegazioni del fenomeno.

Secondo alcuni (pseudo)scienziati, i falsi ricordi sarebbero la prova dell’esistenza di universi paralleli; la manifestazione tangibile di innumerevoli realtà alternative; o, ancora, stati quantistici sovrapposti che si intrecciano nella coscienza collettiva. Il web, nell’amplificare teorie al limite del complottismo, si è trasformato nel palcoscenico perfetto per una metanarrazione digitale: l’Effetto Mandela, per chi naviga l’abisso della rete, dimostrerebbe inequivocabilmente che abitiamo una simulazione. Siamo, secondo loro, degli avatar immersi in una macchina virtuale. Personaggi che non hanno coscienza di far parte di un codice: esseri senzienti che, proprio attraverso i falsi ricordi, possono trovare un indizio della riprogrammazione del loro cervello. Un glitch, insomma. Un glitch, nel glitch.

Tuttavia, a ben vedere, il rapporto fra macchine e umanità è sempre stato – come dire? – “simbiotico”. Lo spettro dell’Intelligenza Artificiale, oggi più che mai, sta esasperando un’idea che coviamo, almeno inconsciamente, da secoli. C’è un bel libro (“Essere una macchina” di Mark O’Connell) che ripercorre la nostra lunghissima luna di miele tecnologica. Nel saggio, l’autore dimostra che in ogni epoca storica abbiamo cercato di rappresentare il corpo e la mente umana attraverso la tecnologia dominante. Nell’antica Grecia, la teoria degli umori seguiva la dottrina dello pneuma: il corpo, per Ippocrate, funzionava seguendo principi idraulici. Nel Rinascimento, ossa e organi venivano studiati come meccanismi a orologeria; nella Rivoluzione Industriale, invece, come macchinari a vapore – è proprio da quell’immagine che Freud ha derivato il concetto dell’inconscio.

Con la rivoluzione digitale, infine, il cervello umano è stato immaginato, rappresentato e studiato come un computer. E viceversa. Si tratta di un’analogia utile, ma insidiosa. Utile, perché ha permesso alla scienza cognitiva di modellizzare il pensiero come un processo di elaborazione di informazioni. Insidiosa – per non dire pericolosa – perché tende a ridurre la mente a un sistema prevedibile di input e output, cancellando tutto ciò che in noi non è razionale: l’intuizione, l’errore, il desiderio. Eppure è nell’imperfezione, nelle reciproche anomalie, che possiamo rintracciare la più autentica somiglianza fra noi e le macchine che stiamo costruendo. Il glitch, traslato nel linguaggio estetico, è una ferita che mostra la struttura. Dove l’immagine si corrompe, la realtà del sistema si rivela. E se questo vale per le macchine, il medesimo concetto ricalca l’intimità (e la fragilità, aggiungerei) dell’atto creativo umano.

L’arte dell’IA, nelle sue infinite declinazioni possibili, segna oggi il passaggio da una cultura della rappresentazione a una cultura della generazione. Gli strumenti non sono più mediatori, ma coautori: è questo il senso della mostra “I Miei Ricordi. Sogni, Allucinazioni e Memorie dell'Intelligenza Artificiale”, l’evento inaugurale del MoAa (Museum of Artificial Art) a Firenze, un nuovo spazio che nasce con l’ambiziosa missione di posizionare l'arte creata con l’IA all'interno del mondo dell'arte contemporanea.

Il 14 novembre 2025, sovrascrivendo il luogo di nascita del Rinascimento con l'emergente rinascimento culturale contemporaneo, verranno esplorati i confini porosi tra memoria umana e immaginazione artificiale: l’evento riunisce infatti dodici artisti internazionali di IA all'avanguardia, chiamati ad affrontare i problemi e le opportunità di una memoria collettiva contaminata – forse, chissà, perfino ottimizzata – dall'ascesa dell'Intelligenza Artificiale nella nostra vita quotidiana.

Ogni artista possiede un linguaggio unico, derivato dalla perturbante contaminazione fra pensiero analogico e calcolo algoritmico. Joy Fennell e Dai, in particolare, rielaborano la tradizione della ritrattistica classica e della fotografia di moda, introducendo in un immaginario storicamente eurocentrico il volto e la presenza del soggetto nero. Le loro opere non usano l’intelligenza artificiale per creare mondi ideali, ma per correggere una rimozione culturale. Le immagini di Mindeye nascono invece da prompt che descrivono sentimenti: l’IA interpreta e produce immagini che si collocano in uno spazio ambiguo, perturbante.

Maddy Minnis, Laura Buechner e Vixy lavorano sulla materia stessa dell’immagine: texture organiche, fibre vegetali, epidermidi digitali si confondono in un ecosistema ibrido. Nel lavoro di Circus of Artifice, la macchina sogna davvero: personaggi mitologici, scene di festa, rituali e visioni si mescolano in un delirio cromatico che sembra emergere da un inconscio digitale. Dullia.K, con le sue sequenze di movimento e di colore, costruisce una coreografia senza coreografo. Le figure danzano, ma il ritmo non obbedisce a una volontà: è il risultato di un sistema che si auto-organizza. Parallel.fbx sceglie di spostare il dialogo sul piano della memoria collettiva e del territorio. Le sue opere prendono come punto di partenza immagini dell’Italia meridionale, filtrate attraverso la lente distorta e stereotipata dell’immaginario digitale globale.

Infrarouge esplora la superficie contemporanea della cultura visuale: streetwear, estetica sci-fi, architetture post-umane. Le sue figure sembrano provenire da una linea temporale alternativa, frantumata e iperconnessa, in cui i corpi diventano dati e la soggettività si disperde nel feed infinito del doom scrolling. Infine, Melita Radocaj (Ctrl_cd) sintetizza la condizione umana contemporanea in figure multiple: uomini e donne dai volti sovrapposti, dai corpi stratificati, vestiti uno sull’altro come file aperti nella memoria. Il suo lavoro è una metafora della nostra identità frammentata, moltiplicata dall’interazione costante con gli algoritmi.

“Riscrivere”, dunque, i nostri stessi ricordi. È questo il rischio che corriamo, oggi? È questo il glitch, l’inedito cortocircuito della più grande macchina della memoria mai costruita – Internet – che è allo stesso tempo il luogo dove la realtà si piega alla manipolazione?

Forse. Quel che è certo, è che ogni giorno miliardi di immagini, testi e frammenti di realtà vengono copiati, ricombinati e distorti sul web. L’errore si insinua, si propaga, e infine si stabilizza come nuova verità condivisa. Viviamo in un’estensione della realtà che produce più informazioni di quante ne potremo mai analizzare. E quando il sovraccarico diventa insostenibile, allora inventiamo collegamenti, colmiamo i vuoti. Anche noi abbiamo i nostri glitch, certo, che preservano l’architettura del sistema: lo facciamo per sopravvivere, per dare continuità al senso. Ogni Effetto Mandela, tutto sommato, è un tentativo di riparare una frattura nel racconto collettivo.

L’arte generata con l’intelligenza artificiale si muove nello stesso territorio. Le opere del MoAa non si limitano a rappresentare questo processo: lo incarnano. I loro mondi sono ricordi di qualcosa che non è mai accaduto, ma che potremmo giurare di aver vissuto. Immagini che sembrano provenire da un passato possibile, o da un futuro appena sognato.

Nelle loro trame digitali, realtà e allucinazione si fondono fino a diventare indistinguibili - non perché l’IA voglia ingannarci, ma perché ci restituisce il modo in cui funziona la nostra stessa coscienza. In fondo, ricordare è un atto creativo. Ogni volta che evochiamo un evento, lo ricostruiamo; ogni volta che lo raccontiamo, lo trasformiamo. La memoria, come un algoritmo generativo, non conserva: rigenera. Siamo parte di un processo che si aggiorna, si confonde, si espande – come un sogno che non finisce mai di essere sognato. Forse viviamo sul serio in una simulazione. Bene: se così fosse, l’arte sarebbe il modo più sincero, appassionante e intrigante per intravedere la realtà, quella “vera”.

Creativo, docente ed esperto di cultura visiva, Alessandro Carnevale lavora in TV da diversi anni e ha esposto le sue opere in tutto il mondo. Nel 2020, la Business School de Il Sole 24 Ore lo ha inserito tra i cinque migliori content creator italiani in campo artistico: sui social media si occupa di divulgazione culturale, coprendo un ampio spettro di discipline, tra cui la psicologia della percezione, la semiotica visiva, la filosofia estetica e l'arte contemporanea. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche, pubblicato saggi e scritto una serie di graphic novel insieme al fisico teorico Davide De Biasio; è direttore artistico di un museo all'aperto. Oggi, come consulente, lavora nel mondo della comunicazione, della formazione e dell'educazione.

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