IDENTITÀ E CORPO
INTERVISTA A SILVIA CALDERONI
Attrice e performer Silvia Calderoni è sicuramente una delle icone del teatro contemporaneo. Con uno sguardo attento al corpo e alla sua espressione riesce a esplorare il confine tra identità e performance, facendo del corpo stesso un elemento centrale del suo lavoro. Approfondiamo la sua carriera e il suo percorso con questa intervista.
Alessio Vigni: Mi piacerebbe partire dall'inizio, dalle tue origini, da Lugo di Romagna, dove sei nata. Chi era Silvia Calderoni da adolescente?
Silvia Calderoni: Sono nata a Lugo, una cittadina di provincia. Sappiamo che l'Italia è fatta di città di provincia. Chiunque arriva da un posticino microscopico. L’essere provinciali è proprio una delle caratteristiche di questo nostro Paese. Lugo è anche il posto dove ho vissuto fino ai vent’anni. La mia è sempre stata una vita classica da paese, però ero molto attenta alla musica, alle controculture, all'abbigliamento. A Lugo c'è questo grande negozio dell'usato, che era il luogo dove andavo a spulciare in mezzo ai vestiti di altri tempi, dove mi rifacevo questi look assurdi. Facevo atletica, quindi il mio percorso parte dallo sport per poi , solo successivamente, incontrare le arti. Con il teatro mi ci sono scontrata involontariamente durante scuola, attraverso un laboratorio alle superiori. Fino a quel momento non ero assolutamente interessata. Tuttavia, ho avuto una particolare fortuna perché in quel momento il laboratorio della scuola era gestito da Teatrino Clandestino, una compagnia storica romagnola. Alla fine degli anni Ottanta in quelle zone, nell’arco di quaranta chilometri, c’erano Romeo Castellucci, Teatro delle Albe, Fanny & Alexander, Motus, era tutto lì.
A.V. Oltre ai laboratori a scuola hai fatto dei percorsi specifici di teatro?
S.C. Si può dire che sono partita dalla pratica e ad un certo punto mi sono ritrovata in scena. Non ho fatto scuole, ho fatto solo un po' di formazione. Non sono una di quelle che dice che le scuole fanno male. Assolutamente no. Ognuno capisce nel proprio percorso cosa gli fa bene e cosa gli fa male. In quel momento non mi interessava andare in una scuola o seguire corsi in altre città e sono rimasta lì in quei territori che erano ricchi di esperienze teatrali molto interessanti. Ho imparato in bottega, un po' come i pittori nel passato e ho iniziato da subito a lavorare con nomi importanti come Teatro Valdoca o Monica Francia. Insomma, sono stata fortunata a nascere lì.
A.V. Ascoltando la tua storia trovo interessante come il corpo sia sempre stato al centro del tuo percorso: prima con il look, poi con l’atletica e quindi l’allenamento fisico e poi con il teatro. Alla base c’era più casualità o un’esigenza creativa ed espressiva?
S.C. Io credo che in un adolescente l'esigenza creativa coincida molto con l'esigenza di scoprire la vita, di vivere il mondo, di scoprirlo. Avevo una grande passione per la musica, una grande passione per il look, e tutto questo, rispetto anche al discorso che facevamo prima, è tutto molto legato al corpo, all'apparenza. L'abito diventa corpo, è anche una questione identitaria: corpo, identità, abito, costruirsi un'identità lavorando anche sul proprio corpo, sull'apparenza, su come siamo nel mondo e parallelamente anche sull'arte, sulla scena. Poi c’è la parte dell'allenamento, il training, le attività anche di mantenimento, di modifica del corpo che sono state una costante quotidiana nella mia vita. Anche per il tipo di teatro che faccio ancora oggi, un teatro molto performativo, serve tanto allenamento. Prima di fare gli spettacolo vado a correre, alleno la voce, faccio training, quindi è tutto una continua attivazione.
A.V. La tua carriera inizia con Valdoca e con incontri molto importanti, poi arriva Motus, la compagnia con la quale ancora oggi lavori.
S.C. Loro nascono a Rimini nel 1991, sempre in quel periodo storico d’oro in cui sono cresciuta. Sono sempre stata una loro fan e se frequentavi certi luoghi li trovavi la sera nei locali, o li vedevi al Cocoricò. Motus era qualcosa di molto presente, erano tutti riconoscibili, quando arrivava questo gruppo di personaggi incredibili li guardavi dicendo: “Cavolo vorrei essere una di loro”. Poi è successo. Ho fatto due provini, ma non sono stata presa e poi invece è nato quel sodalizio artistico che va avanti ancora oggi. Quest'anno sono 20 anni di lavoro insieme. All'inizio ero più legata all'energia, quindi ero un corpo energetico, e percepivo questa grande possibilità di stare tranquillamente dentro l'identità che più mi piaceva. Potevo mantenere un certo tipo di androgenismo, ed era qualcosa che portavo come materiale di scrittura scenica e quindi questa cosa ovviamente mi ha dato una grande libertà, influendo su come ho vissuto la mia identità di genere e sessuale.
A.V. Dopo Motus, inizi a lavorare anche con Living Theatre.
S.C. Allora, in realtà l'incontro con Living, per me coincide con l’incontro con Judith Malina, una delle tre fondatrici. Eravamo a New York a fare spettacolo con Motus e Judith è venuta a vedere il lavoro, era una riscrittura di un Antigone e io facevo proprio Antigone. Lei aveva lavorato tanto su quel personaggio e in quel periodo aveva già 82 anni. Mentre stavo facendo riscaldamento, prima che iniziasse il lavoro, vedo su una sedia un cartellino con scritto Judith Malina. Mi prende un colpo. Panico. Per me lei era un mostro sacro. Finito lo spettacolo, da vera fan, vado a salutarla e lei dice questa frase: “Sarebbe bello fare un lavoro insieme, io e te”. Non ci ho pensato due volte dopo qualche mese eravamo a New York che iniziamo a fare le prove. Da questo incontro è nato un lavoro in cui eravamo solo io e lei in scena. Era già molto anziana e il suo corpo la stava lentamente abbandonando, ma la sua mente no. Sul palco lei era come un archivio vivente che mi passava dei pezzi storici del Living Theatre e io, live, con il mio corpo li rimettevo in scena. Judith era fantastica, lei faceva le sue lotte, è stata una rivoluzionaria fino alla fine, fino all’ultimo. Ha conosciuto e ha vissuto con personaggi incredibili. Una volta mi ha raccontato di aver pagato la cauzione a Jim Morrison per farlo uscire dal carcere e di quanto fosse antipatico Andy Warhol.
A.V. Poi c’è l’incontro con il cinema. In particolare mi interessa capire com’è stato l’incontro con Alessandro Michele e Gus Van Sant per il progetto della serie prodotta da Gucci.
S.C. Avevo già iniziato a collaborare con Alessandro diversi anni prima. Mi aveva chiamato per partecipare a un suo show. Lui è una persona molto curiosa ed è un grande osservatore di vita e di teatro. Cioè ama molto il teatro, viene molto spesso, è una delle sue passioni e quindi mi conosceva per quello che facevo. Poi mi ha chiesto di collaborare con lui in un suo show. Io ero da un sacco di tempo che desideravo fare una sfilata di quelle con la S maiuscola, ed è stata un'altra scarica di adrenalina pazzesca. Poi nel corso dei vari anni ho fatto altre cose con lui. Ale ha questa grandissima capacità di non disegnare i mondi ma di disegnare i popoli, lui inventa i popoli. Per me sta al pari dei grandi artisti di arte visive. È stato lui a chiedermi di questa serie, ed è stato un grande azzardo avere me. Io non sono mainstream e non coincido a dei canoni video rassicuranti, ma siamo andati oltre. Quando ho scoperto che la regia sarebbe stata affidata a Gus Van Sant ne sono stata entusiasta, perché sono cresciuta a pane e suoi film. Da sempre, lui è uno dei miei riferimenti estetici, anche perché ha contaminato molto le arti performative. Quindi è stata un'esperienza molto forte, anche non solo nei momenti in cui si girava, ma anche per quello spirito da bottega che si respirava dietro le quinte. Sono molto fortunata di avere dei pezzi di vita che mi sembrano dei sogni.
A.V. Tutta la tua ricerca artistica si basa anche su questa sfida del limite del corpo, dell'identità. Cos’è per te il corpo oggi e soprattutto siamo arrivati a un grado di consapevolezza profondo di questo concetto o siamo ancora lontani?
S.C. Argomento complesso, ma ci proviamo.
Partirei dal fatto che mi succede spesso che mi chiedono se considero il corpo come strumento. Devo ammettere che sono molto lontana da questa concezione. Per me c'è proprio un errore di base in questa affermazione: non si può pensare che il corpo sia uno strumento, cioè non è una chitarra, non è un'automobile, il corpo sia noi. O ritorniamo a ricoincidere con questi corpi che abbiamo, che poi possono essere modificati, con il quale possiamo non riconoscerci, però dobbiamo concedere con essi. Non si può neanche pensare che il corpo diventi lo strumento con cui ci si esprime, perché è un’affermazione molto presuntuosa, nel senso che tutte le persone si esprimono con questo sistema. Ho utilizzato tanto il mio corpo in modo molto a consumo, l'ho rotto, l’ho sbattuto per terra, l’ho testato, un po' come se fosse un manichino dei car crash. Adesso questa cosa si è pacificata, forse è anche una questione di età, comunque mi è molto più chiaro che non c'è bisogno per forza di usarlo al massimo per sentirlo o per farlo sentire e arrivare. Tuttavia è paradossale che pur non facendo parte di un canone, finisci per crearne uno nuovo. Io non coincido con quell'ideale di canone di corpo femminile che tutti abbiamo, ma neanche maschile, però pur superando questo sistema di immaginazione binaria, vado a creare un nuovo modello al quale qualcun altro non coinciderà e così via.
A.V. Quindi anche la tua identità e il tuo percorso personale hanno sempre influenzato il tuo lavoro? Oppure sei riuscita a distaccartene?
S.C. No, tutto è stato sempre influenzato e molto mischiato. Addirittura in certi momenti della mia ricerca artistica ho fatto diventare materiale drammaturgico il mio privato. Per esempio con il lavoro MDLSX, con il quale si entra dentro il mio privato come materiale di scrittura. Anche nei miei ultimi lavori, soprattutto nella ricerca che facciamo io e Ilenia Caleo, come per The present is not enough, il corpo è la drammaturgia. Infatti sono lavori molto sperimentali in cui i corpi sono gli assoluti protagonisti e sono i corpi stessi di per sé che già sono scrittura. Anche in Kiss, i corpi sono talmente presenti che provano a farsi spazio col proprio stare. Non ci sono corpi che valgono di più, corpi che valgono meno, cioè valgono tutti i corpi allo stesso modo, anche scenicamente parlando. Corpi abili, corpi non abili, corpi con la pelle di un certo colore, invece questa cosa non è ancora scontata nel mondo che frequentiamo ogni giorno.
A.V. Mi sembra di capire che tutto parta dal tuo vissuto e poi si trasforma in una reazione politica e di resistenza a quello che vivevi e vivi.
S.C. La mia bella scritta lesbica di merda sui muri di scuola me la sono dovuta leggere. Quindi il mio vissuto mi ha sempre influenzato. Se tu vai per strada vestito in un certo modo, in un certo periodo, in un certo ambiente, soprattutto in certi paesini, già stai facendo un atto politico. Tutto si basa poi sulla postura che adotti nel mondo, perché comunque le scritte le leggi, la gente per strada ti vuole menare e per forza che a un certo punto sei incazzata e usi il corpo in un certo modo e fai teatro in un certo modo. E per questo ti dico che è tutto mischiato perché non può essere altro. Ti esprimi in un certo modo, hai un certo tipo di furia nel corpo perché è lo stesso corpo per cui non ti fanno entrare nei posti, che non coincide con l’ideale, e che fa schifo alla gente. Io ho fatto questo training pazzesco, dai 18 anni ai 28 anni ho lavorato al Cocoricò, facendo le performance all'entrata, in cui io stavo dentro a dei tableau vivant per quattro ore ferma e immobile all'entrata. C'era solo una regola: le persone non mi potevano toccare, però io sentivo cosa dicevano. Molte volte ero completamente nuda quindi uno degli argomenti principali era il mio corpo e per dieci anni mi sono sentita dire: “Che schifo!”, “Che cos’è? È un maschio o una femmina?” “Guarda, non ha le tette!” “Aspetta, forse ha il pisello, ah no, non ce l’ha”. Così, ore, ore, ore. Come se non sentissi. E tutto questo accadeva quando non c’era la circolazione di tutte le teorie, materiali, non c’erano i libri di Presiado e non si capiva bene cosa fosse il Queer. Ero Queer, ma non si conosceva ancora questa parola.
A.V. Ci avviciniamo alla chiusura parlando del tuo libro Denti di Latte, uscito quest’anno ed edito da Fandango Libri. Ci tieni sempre a precisare che non è una tua biografia, però leggendolo, si capisce cha hai dovuto fare una sorta di ricerca negli archivi tuoi personali dell’infanzia, confrontandoti con il tuo passato. Perché hai sentito l’esigenza di passare a questo tipo di scrittura?
S.C. Esatto, sono andata in quel mega magazzino degli archivi, dei ricordi e ne ho preso dei pezzi. Quando l’ho scritto era il periodo del covid. Quell'esperienza che abbiamo fatto tutti e che ci ha fatto rientrare in quei magazzini della nostra memoria e anche riaprire quelle scatole che magari di fretta non avevamo voglia di aprire. Ho preso alcune parti e poi l’ho mixate con la fantasia. Ho trattato la scrittura come mi comporto in scena. Ho cambiato il dispositivo, anche perché con il Covid non potevamo stare in scena in quell'anno e quindi ho fatto il mio stesso lavoro, ma, scegliendo il romanzo come forma espressiva e l'ho trattato da un punto di vista compositivo come tratto lo stage. Sicuramente ho aperto un filone che è diventato un altro bacino di contaminazione, che era già presente in me in altre forme, ma che sicuramente me lo porterò dietro. È stato un atto creativo in solitario. Mi piacerebbe rifarlo, mi sono divertita.
A.V. L’ultima domanda riguarda il futuro. Cosa hai in cantiere?
Da poco è arrivata la nomina per la direzione artistica del Short Theatre a Roma, una direzione collettiva che avrò il piacere di condividere con Ilenia Caleo, Michele Di Stefano e Silvio Bottiroli. Da sola non l'avrei mai fatto, io non nasco come curatrice e quindi mi piace l'idea che invece in una collettività si possa anche mettere a sistema dei modelli diversi. A questo si aggiungono i nuovi progetti con Ilenia, con le residenze e poi continueremo a portare in giro i lavori che abbiamo già fatto. A marzo, invece, terrò un corso allo IUAV di Venezia. Tante cose con stimoli nuovi.
Immagine di copertina: Silvia Calderoni Ph Ilenia Caleo
Alessio Vigni, nato nel 1994. Progetta, cura, scrive e si occupa di arte e cultura contemporanea.
Collabora con importanti musei, fiere d'arte, organizzazioni artistiche ed è consulente esterno della Fondazione Imago Mundi (Treviso). Come curatore indipendente, lavora principalmente con artisti emergenti. Recentemente ha curato SNITCH Vol.2 (Verona, 2024), Dialoghi empatici (Milano, 2024) e la mostra SNITCH (Bologna, 2023). La sua pratica curatoriale indaga il rapporto tra il corpo umano e le relazioni sociali dell'uomo contemporaneo.
Scrive per diverse riviste specializzate ed è autore di cataloghi d'arte e podcast. Per Psicografici Editore è coautore di SNITCH. Dentro la trappola (Roma, 2023). Dal 2024 è membro dell'Advisory Board di (un)fair.