
Intervista a Rachel Dedman, Jameel Curator of Contemporary Art from the Middle East al V&A Museum
In questa intervista esclusiva la curatrice Rachel Dedman racconta il suo approccio alla curatela e alla narrazione dell’arte contemporanea del Medio Oriente all’interno del Victoria & Albert Museum di Londra.
Ho avuto l'opportunità di incontrare Rachel Dedman, Jameel Curator of Contemporary Art from the Middle East presso il V&A Museum, per parlare della sua carriera, del suo lavoro con gli artisti del Medio Oriente e di come intende influenzare il dibattito e lo sviluppo della collezione del museo.
Lavorare in Medio Oriente
Ripercorrendo la sua carriera, che l’ha portata in Medio Oriente prima di rientrare nel Regno Unito, Rachel Dedman racconta: “Ho studiato storia dell’arte, concentrandomi sull’arte islamica e sull’arte moderna e contemporanea del Medio Oriente, tra il Regno Unito e gli Stati Uniti. Nei miei vent’anni ho avuto l’opportunità di trasferirmi in Libano e di partecipare a un programma culturale organizzato dal Ashkal Alwan a Beirut, uno degli spazi d’arte contemporanea più importanti e dinamici per artisti e curatori della regione.”
"Stavo portando avanti progetti curatoriali indipendenti, conoscendo persone e sperimentando in Libano e Palestina, quando il Palestinian Museum mi ha incaricata di lavorare sulle dinamiche politiche legate all’abbigliamento del Paese e sulla sua storia del ricamo. Questi temi sono diventati una delle mie aree di specializzazione e ho curato numerose mostre su questo argomento, sia nel mio percorso indipendente che al V&A Museum".

Dedman ha vissuto a Beirut tra il 2013 e il 2019: “Vivere lì mi ha dato enormi vantaggi, permettendomi di realizzare progetti in modo piuttosto agile, senza troppa burocrazia. Purtroppo, ogni giorno c’erano delle continue sfide, e dopo anni di pratica indipendente precaria sentivo il bisogno di entrare in un’istituzione”. Questa decisione l’avrebbe poi portata a ricoprire il suo attuale ruolo al V&A a Londra.
Ha lasciato il Libano prima dell'esplosione al porto del 2020 e, da allora, il Paese ha vissuto un periodo di forte instabilità. “È stato un momento di straordinario privilegio poter vivere lì, perché la scena artistica era ricca e dinamica. Non era un sistema ben finanziato, ma si percepiva una grande energia e creatività. Gli artisti erano socialmente impegnati, realizzando opere di forte impatto politico”.
Dedman mantiene ancora legami con il Libano: “Faccio parte del comitato consultivo di una collezione d’arte libanese, dove decidiamo quali opere acquisire e selezioniamo gli artisti per il programma di residenze”. Nonostante abbia ancora connessioni con Beirut, molti colleghi e amici hanno lasciato il Paese, evidenziando come “la fuga di cervelli sia uno degli aspetti più tristi” della situazione attuale. Una condizione che, secondo lei, potrebbe peggiorare ulteriormente dopo l’invasione israeliana del Libano, nonostante l'attuale cessate il fuoco.
Curatela al V&A
Parlando della sua decisione di entrare a far parte del V&A, Dedman spiega: “Ero entusiasta all’idea di lavorare in un'ottica meno legata ai singoli progetti e di poter contribuire a un museo nel lungo periodo, acquisendo nuove opere per la collezione ed espandendo la nostra raccolta di arte contemporanea del Medio Oriente... Si tratta di costruire qualcosa che lasci un’eredità duratura”.

Parlando della storia del rapporto del V&A con l'arte islamica e dell'Asia meridionale, Dedman spiega: “La maggior parte delle nostre collezioni islamiche di livello mondiale proviene dalla Grande Esposizione del 1851” – molti degli oggetti esposti in quell’occasione sarebbero poi confluiti nella collezione del South Kensington Museum, che in seguito divenne il V&A.
Dedman aggiunge che, "nella seconda metà del XIX secolo, in un’epoca di rapida industrializzazione, la Gran Bretagna era all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, ma forse non possedeva l’expertise nel design che, ad esempio, avevano Francia o Germania”. Per questo motivo, il Paese si rivolse al mondo islamico e all’Asia meridionale. “Ecco perché vennero acquisite molte opere di architettura e arte islamica: dovevano servire da ispirazione per i designer britannici”.
Questo ci porta direttamente al ‘Jameel’ nel suo titolo e alla famiglia da cui prende il nome: “La famiglia Jameel ha una lunga relazione con il V&A, iniziata con la nostra galleria dedicata all’Islam del Medio Oriente, chiamata Jameel Gallery”. La galleria è stata inaugurata nel 2006 con il sostegno finanziario della famiglia Jameel. Dopo l’apertura, è nata l’esigenza di dimostrare come gli oggetti e la storia presenti in queste gallerie “continuino a essere fonte di ispirazione per le pratiche artistiche contemporanee e critiche”.
Questo ha portato alla creazione del Jameel Prize, che oggi ha una cadenza triennale e di cui Dedman è curatrice. Attualmente giunto alla sua settima edizione. è in corso al V&A, l’esposizione di quest’anno, dedicata alla video arte. “Questa volta volevo concentrarmi su un ambito che in passato è stato poco valorizzato dai Jameel Prize… Nelle precedenti riunioni della giuria, le opere digitali e i lavori video faticavano a trovare risonanza rispetto a pratiche artistiche più tangibili. Dedicare un’edizione del Premio a questo ambito è stata un’occasione per colmare questa lacuna: il video e i media digitali offrono un enorme potenziale per una narrazione immersiva ed emotivamente coinvolgente”.
Parlando della precedente edizione del premio, Dedman spiega: “L’ultima volta il tema era il design, perché sentivo che mancava una prospettiva critica su questa disciplina. Il titolo era ‘Poetry to Politics’ e molte delle opere avevano una natura politica. Si parlava di rivoluzione e resistenza, con una riflessione critica su architettura, tipografia, moda e tessitura”.
Il Jameel Prize è un premio internazionale dedicato all’arte e al design contemporaneoi, legati alla cultura e alla società islamica. Tuttavia, Dedman chiarisce: “Il premio è aperto a chiunque, indipendentemente dal background… Penso che molti dei nostri artisti non si identificherebbero necessariamente come musulmani” e che il concorso è rivolto a pratiche “che affrontano tematiche rilevanti per le comunità musulmane, ovunque esse si trovino nel mondo”.

"Siamo molto fortunati ad avere il Jameel Endowment al V&A, che ci permette di organizzare il Jameel Prize, acquisire nuove opere e sostenere altri tipi di programmazione. Una delle prime iniziative che ho proposto quando sono arrivata qui è stata l’istituzione di un programma di residenza per artisti: il Jameel Fellowship Programme. Invito gli artisti a svolgere ricerche sulla nostra collezione, offrendo loro tempo, spazio, una borsa di studio e supporto per approfondire il loro lavoro esistente o sviluppare nuovi progetti in relazione alle nostre raccolte, con un focus sulla ricerca. Non è necessario che producano un’opera, anche se spesso lo fanno, e in quei casi possiamo acquisirla o esporla… Questo è qualcosa che, da curatrice indipendente, non avevo le risorse per realizzare".
L’eredità e il ruolo in evoluzione dei musei
Quando discutiamo di come siano cambiate le aspettative del pubblico nei confronti dei musei, afferma: “C’è sicuramente una consapevolezza crescente di quanto il nostro pubblico risponda positivamente a un programma espositivo diversificato e dinamico… L’interesse del pubblico è cambiato, ed è entusiasmante vedere visitatori sempre più eterogenei entrare nel museo, attratti, ad esempio, dalla mostra The Great Mughals”.
Ritornando al Jameel Prize, lo considera “un premio rivolto a un pubblico più giovane, appassionato di cinema e arti digitali, ispirato dalle narrazioni di queste regioni e dagli artisti che affrontano tematiche urgenti come la crisi climatica in Pakistan, Kuwait e nel Golfo”.
Per quanto riguarda il dibattito più ampio sulla restituzione degli oggetti saccheggiati, afferma: “Siamo oggetto di richieste assolutamente legittime di rimpatrio, e il nostro pubblico ci chiede sempre più spesso di approfondire la storia coloniale del museo, nonché le origini e la provenienza delle nostre collezioni. Non siamo esattamente l’epicentro di questa discussione a livello internazionale, come lo è il British Museum con i Bronzi del Benin e i Marmi di Elgin, per citare gli esempi più noti… Tuttavia, abbiamo curatori specializzati nella provenienza delle opere che si occupano di queste questioni”.
Cita, ad esempio, Jacques Schumacher, esperto di provenienza al V&A, che ha recentemente condotto una ricerca che ha portato alla restituzione di un vaso di 4.250 anni fa, precedentemente in prestito a lungo termine al V&A, al Museo della Civiltà Anatolica di Ankara, in Turchia. “Lavoriamo costantemente per decifrare storie complesse e raccontarle al nostro pubblico. Penso che il V&A Storehouse sarà un luogo ideale per approfondire queste tematiche”, aggiunge, facendo riferimento alla prossima apertura del V&A East.
Questa nostra conversazione ci permette di tornare sulla rilevanza contemporanea del Jameel Prize. “Se mi chiedete perché realizzare una mostra di questo tipo proprio ora, la risposta è che, in un momento di conflitti devastanti nella regione e degli effetti sproporzionati del cambiamento climatico sul Sud del mondo, è fondamentale offrire una piattaforma alle voci degli artisti del Medio Oriente e dell’Asia meridionale, che storicamente non hanno avuto la possibilità di esprimersi in istituzioni come questa”.

Parliamo anche del fatto che Dedman non abbia origini mediorientali. “Essere qui è per me un privilegio enorme: questa non è la mia eredità culturale, non è la mia cultura, e ne sono sempre consapevole. Come curatrice indipendente nella regione, potevo spostarmi tra il Libano e la Palestina grazie al privilegio di avere due cittadinanze, passaporti diversi, e la possibilità di compiere quel viaggio”. Ha inoltre il vantaggio di “parlare la lingua, essere immersa nel contesto, avere una rete di contatti nella regione… Cerco di mettere tutto questo a frutto e vedo il mio ruolo come quello di creare spazi, opportunità e possibilità per gli artisti”.
Aggiunge che la sua eredità ebraica le consente di “andare oltre e mi dà la possibilità di parlare senza paura”, ma anche di sfidare “l'ignorare e cancellare dichiarazioni e opere a favore della Palestina sotto la giustificazione dell'antisemitismo”. Riguardo a come ciò possa influenzare la collezione, dice: “Quest’anno sono molto interessata ad acquisire un'intera serie di materiali legati alla solidarietà con la Palestina, inclusi alcuni fantastici simboli, pubblicazioni e manifesti che vengono realizzati”, mi racconta mentre indossa un distintivo di solidarietà palestinese.
Durante tutta l'intervista, è evidente il suo intento di dare visibilità all'arte e all'attivismo del Medio Oriente e del Sud Asia, e nel dare voce a chi potrebbe non essere necessariamente ascoltato nel Regno Unito. Questo ci suggerisce che ci sia molto da aspettarsi dalla collezione contemporanea al V&A e le future edizioni del Jameel Prize.
Jameel Prize: Moving Image è in mostra al V&A fino al 16 marzo, con ingresso gratuito.
Immagine di copertina: Jameel Prize Moving Images © Victoria and Albert Museum
Tabish Khan è un critico d'arte specializzato nella scena artistica londinese e crede con passione nel rendere l'arte accessibile a tutti. Visita e scrive di centinaia di mostre all'anno, dalle più importanti alla scena artistica emergente.
Scrive per diverse pubblicazioni ed è apparso molte volte in televisione, alla radio e in podcast per discutere di notizie e mostre d'arte.
Tabish è amministratore di ArtCan, un'organizzazione artistica senza scopo di lucro che sostiene gli artisti attraverso attività di visibilità e mostre. È anche amministratore della prestigiosa City & Guilds London Art School e di Discerning Eye, che ospita una mostra annuale con centinaia di opere. È un amico critico dei progetti UP che portano artisti di fama mondiale fuori dalle gallerie e negli spazi pubblici.