Wolfgang Laib: l’epifania dell’invisibile

Un viaggio tra materia e spiritualità nell’opera di Wolfgang Laib, dove il tempo si fa arte e il silenzio diventa linguaggio visivo.

04.09.25

Wolfgang Laib è uno degli artisti più enigmatici e radicali della scena contemporanea. La sua arte non cerca il clamore, ma si rivolge alla profondità dell’esperienza sensoriale e spirituale. Attraverso gesti minimalisti e rituali, Laib crea opere che sembrano sfuggire alla nostra comprensione immediata, ma che, nella loro essenzialità, svelano la bellezza nascosta nelle cose più ordinarie. La sua pratica, fatta di tempo, pazienza e materie organiche, si immerge nel cuore di una riflessione più grande sul nostro rapporto con la natura e la sacralità della vita.

L’opera di Wolfgang Laib si distingue per la sua rara intensità, un’ode alla lentezza, alla ritualità e alla sacralità della materia organica. Nato nel 1950 a Metzingen, in Germania, Laib è una figura unica e radicale: inizialmente formato in medicina, abbandona gli studi clinici poco prima della laurea per intraprendere un percorso artistico che possiamo definire ascetico, quasi eremitico. Il suo lavoro non è mai spettacolare nel senso convenzionale del termine, e proprio per questo esercita una forza magnetica e quasi mistica.

Wolfgang Laib, Art Basel 2024 Wolfgang Laib, Art Basel 2024

Dal 1975, Laib ha intrapreso un gesto artistico tanto semplice quanto inaudito: raccogliere il polline dai prati e dai boschi intorno alla sua casa nella campagna sveva – nocciolo, pino, tarassaco, castagno – per poi disporlo in sottili strati geometrici sui pavimenti dei musei e delle gallerie più prestigiose del mondo. Questi campi di colore, apparentemente immateriali, vibrano di una luce propria: non sono dipinti né sculture, ma manifestazioni. Rettangoli giallo acceso che sembrano evaporare nell’aria, ma che sono in realtà il frutto di ore, giorni, mesi di raccolta manuale, di una cura quasi devozionale verso il vivente.

L’arte di Laib è, in questo senso, una pratica di trasformazione: il polline non è solo materiale, ma simbolo. Ogni sua installazione è un atto rituale che parla di ciclicità, di rinascita, di un’armonia possibile tra l’umano e il non-umano. Nei suoi gesti si avverte una tensione spirituale, un desiderio di trascendenza che non si rifugia nell’astratto, ma si radica nella concretezza dell’organico.

Eppure, il polline è solo una delle sue modalità espressive. Le stanze rivestite in cera d’api – come contenitori di memoria olfattiva e luminosa – sembrano custodire il tempo stesso, con le loro pareti dorate e silenziose. Le lastre di marmo intagliate e riempite quotidianamente di latte evocano un’immagine arcaica, dove il nutrimento diventa offerta, e l’offerta, meditazione. Le ciotole di riso, disposte con ordine monastico, dialogano con la liturgia buddista e con la pazienza di chi riconosce nella ripetizione un atto di resistenza.

Wolfgang Laib, Polline di nocciolo, atrio del Museum of Modern Art, fotografia di Librado Romero
Wolfgang Laib, Polline di nocciolo, Roma 2004-2005
Wolfgang Laib, Passageway, barche in ottone e riso, Villa Panza Varese, fotografia di Michele Alberto Sereni, per gentile concessione di Magonza
Wolfgang Laib, e vidi cose che ridire né sa né può..., Galleria Lia Rumma, 2023

Nel 2013, il MoMA di New York ha ospitato una delle sue opere più monumentali: una superficie di polline di circa sei metri per sette, adagiata come un tappeto sacro nel Marron Atrium. Alla vista, la distesa gialla appariva come un’emanazione luminosa, un’area di pura energia. Solo avvicinandosi si svelava la sua natura fragile e granulosa, il risultato di un lavoro paziente e invisibile. Un’azione che sottrae l’arte al fragore dell’industria culturale per restituirla al respiro del mondo.

Laib non crea oggetti: crea esperienze. Le sue opere non impongono, ma accolgono; non dimostrano, ma rivelano. Il tempo, per lui, non è un nemico da battere, ma un alleato da ascoltare. Il suo è un linguaggio primordiale eppure profondamente eloquente, che interroga lo spettatore senza mai alzare la voce.

In un’epoca affetta da bulimia visiva e iperproduzione, Wolfgang Laib ci offre una via alternativa: un’arte che non cerca il consenso, ma l’introspezione; che non accumula, ma distilla; che non intrattiene, ma trasforma. La sua è una poetica della soglia, in cui ogni granello di polline, ogni goccia di latte, ogni grumo di cera diventa manifestazione di qualcosa che trascende il visibile, traccia di un dialogo intimo tra l’essere umano e la natura.

Immagine di copertina: Wolfgang Laib, e vidi cose che ridire né sa né può..., Galleria Lia Rumma, 2023

Figlia adottiva di Milano ma nata in Campania. Ne ho raccontato la cultura viscerale, i suoi eccessi sentimentali, il culto del quotidiano e del sacro. Scrivo di arte, moda, cibo, rabbia, eretismo psichico e polemiche sterili. Ho scritto di corpi queer, sangue nell’arte, edicole non ordinarie e di amore. Mi piacciono le parole complesse, la frutta matura e i flussi di coscienza. 

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