
Androidi e pecore elettriche: come la tecnologia ci sta disumanizzando
Dai robot umanoidi come Protoclone e MagicBot all'empatia artificiale: un viaggio nel futuro inquietante dell'intelligenza artificiale.
Protoclone è un “grazioso” androide muscoloscheletrico progettato per replicare fedelmente l'anatomia e il movimento del corpo umano. Sono abbastanza sicuro che ne abbiate già ammirato le gesta in un video virale: c’è una stanza nera, con dei cavi che pendono dal soffitto – lì il robot, come un acrobata di un circo cyberpunk, se ne sta sospeso a un trapezio per qualche secondo. D’un tratto inizia a contorcersi e tremare: i muscoli sintetici si contraggono sotto la pelle traslucida, realizzata ad hoc per aumentare l'effetto iperrealistico dell’anatomia artificiale. I reel che ho visto, di solito, proseguono con una presentazione infografica dei dettagli strutturali del prototipo, cui si aggiungono altre dimostrazioni pratiche della mobilità delle componenti – devo ammetterlo, abbastanza sbalorditive.
Mi capita piuttosto spesso di imbattermi sui social in contenuti simili. Di recente ho visto un robot che corre all’aperto per 4 minuti di fila: da quello che ho capito, l’azienda che ha prodotto MagicBot (così si chiama il runner androide) sta lavorando per farlo gareggiare in una mezza maratona a Pechino, insieme a 12.000 corridori in carne ed ossa. Intrigante? Incredibile? Spaventoso? Ecco, c’è una cosa che non posso far a meno di notare, ogni volta che apro la sezione commenti di uno di questi video: la diffusa sensazione di orrore, repulsione – perfino sgomento – che accompagna la visione delle prodezze robotiche di ultimissima generazione.

Che si tratti del “Pepper” di SoftBank, di un prototipo dalla pelle in silicone o dei simulacri che imitano persino i movimenti microscopici delle pupille, la reazione collettiva è spesso unanime: inquietudine. Tutti noi sembriamo, a conti fatti, vittime di quella che l’ingegnere nipponico Masahiro Mori, nel lontano 1970, battezzò “Uncanny Valley”: quando un robot raggiunge un livello di somiglianza troppo alto con l’essere umano, invece di rassicurarci, ci destabilizza. Strano? Diciamo che a rigor di logica, più un automa è simile a noi, più dovrebbe ispirare sentimenti positivi, empatia, perfino simpatia. Ma l’Uncanny Valley non fa sconti alla pura razionalità: gli androidi troppo “umani” si collocano percettivamente in una strana sovrapposizione concettuale di familiarità e atavica repulsione. Così, quando ci troviamo davanti a un’entità che appare viva, eppure non lo è (o lo è diversamente da noi), si innesca una scintilla di paura primordiale. È un istinto, radicato nella nostra più intima natura umana. E credo sia proprio questa specie di “essenza”, oggi, che sentiamo – in qualche modo – minacciata.
Mettiamola così: per secoli siamo stati cullati dall’idea che l’Uomo fosse il centro dell’intero universo. L’uomo Vitruviano di Leonardo è forse l’icona che sintetizza meglio il concetto di un’umanità che si eleva a “misura di ogni cosa”. L’evoluzione moderna della tecnica, del pensiero epistemologico, del progresso: la natura, a partire dal Rinascimento, è spesso diventata un mero strumento, la conoscenza ha esaltato la nostra capacità di controllo, la tecnologia si è trasformata nel prolungamento della nostra volontà. Ma quando la “misura” scivola nell’illusione di una supremazia assoluta, si aprono crepe inattese: quell’ideale di armonia, già minato dalle scoperte cosmologiche e dalle spinte razionali del passato, si trova oggi a confrontarsi con l’orizzonte ben più vertiginoso delle nuove tecnologie informatiche e genetiche. Il concetto di “misura di tutte le cose” s’infrange contro realtà ibride, dove organico e artificiale si confondono. Non è più solo questione di spostare l’Uomo dal centro dell’Universo, ma di ridefinire i confini stessi dell’umano. Quando la scienza si fa creatrice, la proporzione si capovolge: non governiamo più la tecnica, ne siamo ridefiniti.

La rivoluzione umanistica, d’un tratto, sembra aver deragliato dai binari antropocentrici che l’hanno sostenuta per mezzo millennio: la scienza, poco alla volta, oggi si si sta sostituendo allo scienziato. Va detto che le radici di quest’allure pseudo apocalittico non nascono certo con ChatGPT che impara a scrivere poesie, romanzi e tesi di laurea. Pensiamo all’arte, che spesso riesce a captare l’eco di un futuro lontano decenni: già nel 1992, la mostra Post Human puntava i riflettori su un’estetica fatta di corpi mutanti, ibridazioni, fusioni fra uomo e macchina, silicone e carne, artificio e biologia. In pieno fervore tecnologico, l’esposizione curata da Jeffrey Deitch raccontava un’umanità che stava abbandonando la centralità dell’io classico per abbracciare una nuova forma di esistenza.
Perché proprio negli anni ’90? Forse perché l’euforia per la new economy, il boom di Silicon Valley, l’avvento del biotech trasmettevano la sensazione che tutto fosse possibile. La pecora Dolly, internet, gli OGM: i giornali si riempivano di articoli che tratteggiavano un futuro in cui avremmo hackerato i geni per creare organismi su misura, dove gli scienziati avrebbero presto trovato un modo per interfacciarci con le macchine per potenziare le nostre capacità fisiche e mentali. La cultura Pop – e l’arte, ovviamente – assorbirono quel fermento per costruire un immaginario visivo aggressivo, ipnotico, finanche di cattivo gusto, in cui riverberava l’allure cinematografica dei vari Blade Runner, Videodrome, Gost in the shell, Terminator, Akira.
C’era tanto, troppo entusiasmo in quei proclami. Come in ogni sbornia ottimistica, si intravedeva un orizzonte di superamento dei limiti umani – la malattia, l’invecchiamento, l’imperfezione – e un ingresso trionfale nell’era del cyborg, del transumano. La mostra Post Human annunciava l’inizio di una rivoluzione antropologica, capace di guarirci dalle nostre angosce millenarie. Creandone – insospettabilmente – molte altre, forse anche peggiori. L’intento di Deitch, tuttavia, era quello di catturare un momento di passaggio, raccontando una transizione epocale: la voglia di rompere i confini della carne, di concepire l’identità come qualcosa di fluido, di potenzialmente manipolabile. Era un inno all’autodeterminazione, un’esplorazione audace del corpo come territorio di sperimentazione etica ed estetica.

Trent’anni fa, va detto, l’immaginario post-human era per lo più teorico. E quando si faceva arte assumeva forme analogiche, fisiche, metamorfiche. L’incubo (o il sogno) del cyborg era un concetto estetico e intellettuale, che prefigurava un futuro di convivenza simbiotica tra uomo e macchina. Oggi, almeno in termini digitali, la profezia sembra essersi definitivamente compiuta. L’IA generativa scrive articoli e campagne di marketing, compone musica, crea meme, grafiche e immagini. In pochissimo tempo è entrata stabilmente nelle scuole, nelle aziende, nelle case, nei software di uso comune. Non mancano, di contro, ansie e preoccupazioni. La paura, ingigantita o reale che sia, è che l’umano venga progressivamente soppiantato – che l’opera del genio dell’uomo cancelli l’uomo stesso. E i robot, gli androidi e i prototipi iperrealistici, semplicemente, spostano questa “convivenza” su un piano concreto, materiale. Ed è qui che scatta il panico: l’IA, finché confinata nel perimetro di un computer, ci appare ancora relativamente innocua. Ma quando invade la nostra dimensione fisica, le cose cambiano.
L’estetica di Post Human ci raccontava proprio questo: all’epoca stavamo varcando un confine, e non potevamo far finta di nulla. Ora che ci riscopriamo ben oltre quella soglia, in un panorama di ibridazioni fisiche e digitali che avvengono tutti i giorni (basti pensare alle protesi intelligenti, alla realtà aumentata, ai chips sottocutanei per usi medici o ai social network come estensione della nostra identità), ci rendiamo conto di quanto quelle opere fossero quasi profetiche. Nel 1992, per essere onesti, alcuni critici accusavano la mostra di essere troppo “commerciale”, di inseguire la moda del cyber, di voler scandalizzare con immagini estreme. E c’è del vero: lo shock era parte integrante del linguaggio di quegli artisti, che non miravano certo a rassicurare il pubblico. Però, a distanza di tre decenni, emerge una seconda, limpida lettura: quella di un corpo collettivo in trasformazione, consapevole che il confine tra naturale e artificiale, tra biologico e meccanico, si sarebbe assottigliato. E che di lì in avanti, ci saremmo scoperti sempre più indefiniti, in costante transizione verso qualcosa d’altro.

L’angoscia che proviamo osservando gli androidi di ultima generazione che parlano, ballano e fanno le pulizie di casa, dopotutto, è una fisiologica reazione al cambiamento, che è sempre ambivalente: da un lato lo desideriamo, dall’altro ne siamo terrorizzati perché apre scenari inediti, nei quali non siamo – ancora – in grado di muoverci agilmente. Freud definiva il perturbante (in tedesco, Unheimliche) come ciò che è familiare e allo stesso tempo estraneo. E aggiungeva che questa condizione genera un senso di spaesamento profondo perché disorienta i parametri con cui siamo abituati a riconoscere la realtà. Con i robot umanoidi accade lo stesso: ci rimandano un’immagine che è intrinsecamente familiare (un corpo con un volto, degli arti, un’espressione) e contemporaneamente perturbante, perché “lì” non c’è vera vita.
In fondo, è il principio del doppio. Se ci fa paura, è perché ci ricorda che non siamo esseri monolitici e perfettamente coerenti, ma fatti di contraddizioni, di zone oscure. E i robot, o i sistemi di LLM, mostrano una maschera di umanità priva di autentico vissuto che ci costringe a fare i conti con la fragilità della nostra nozione di “essere vivi”. In altre parole, l’Uncanny Valley non è che l’immagine di una fessura già presente dentro di noi. E qui torna di nuovo la lezione di Post Human. Non stiamo semplicemente assistendo a un progresso lineare della tecnica; stiamo vivendo una mutazione antropologica che mette in scena una contraddizione profonda: vogliamo essere “più che umani”, ma allo stesso tempo siamo terrorizzati da ciò che si avvicina troppo all’umano senza esserlo davvero.
Negli anni ’90, con lo spirito pionieristico che si respirava, molti artisti celebravano la fluidità identitaria, la possibilità di costruirsi un corpo su misura, di superare i confini della carne. Oggi, che quella fluidità si manifesta in maniera più tangibile, ne scopriamo anche le contraddizioni, e le durissime reazioni avverse – come dimostra l’ascesa delle destre iper-conservatrici in Europa e nel mondo. Forse, alla luce dei moti reazionati che animano l’attuale panorama politico, dovremmo ripensare al senso più sociologico di quella stagione artistica. Con le lenti giuste, potremmo iniziare a vederla come un esplicito invito ad aprire gli occhi sul fatto che la nostra identità non è scolpita nella pietra: è un divenire perpetuo, e ogni tanto questo divenire si fa inquietante. L’arte, all’epoca, tentava – seppur goffamente, talvolta – di mettere in scena la complessità e l’ambiguità di questo passaggio.

Se cerchiamo di capire perché quell’estetica ci parli così intensamente ancora oggi, è forse perché in essa vediamo l’origine delle nostre stesse contraddizioni attuali: il corpo (o la mente) come terreno di sperimentazione, il desiderio di superare il limite dell’invecchiamento biologico e la paura di perdere la propria anima, la fascinazione per il futuro e il timore di essere soppiantati da una tecnologia più performante – sotto ogni profilo. Insomma, Post Human ci ha mostrato che eravamo già allora “oltre l’umano” nella nostra immaginazione, eppure ancora saldamente ancorati alle nostre vecchie angosce.
Oggi, in un panorama radicalmente diverso – con i social network che diffondono informazioni e paure in tempo reale, l’intelligenza artificiale che condanna all’obsolescenza centinaia di professioni fino a ieri “umanissime” – le stesse angosce risuonano ancora più forti. Non siamo più nel territorio delle ipotesi: abbiamo robot che riescono a interagire con il pubblico, abbiamo IA che compongono musica e “ragionano” (pur senza coscienza) in modo sorprendentemente simile a noi. La sensazione di spaesamento e di inquietudine non va sottovalutata né demonizzata. È normale provare paura di fronte a un salto così radicale nella nostra concezione dell’essere umano. Forse dobbiamo imparare a convivere con quell’inquietudine, riconoscerne le ragioni profonde, e non liquidarla come un banale timore del diverso. Perché, in effetti, il robot umanoide – o un modello di IA generativa – non è un “diverso” qualunque: è la nostra copia imperfetta e potenziata, è il nostro doppio tecnologico.
Il punto è che non possiamo più rimandare un serio dibattito su cosa significhi “essere umani” in un’epoca di tecnologie che non si limitano ad accompagnarci, ma potenzialmente ci eguagliano, talvolta ci superano. Possiamo dirci turbati, a disagio, perfino spaventati. Ma, come l’arte degli anni ’90 provava a mostrarci, questa inquietudine può diventare forza creativa: possiamo usarla per ridefinire in modo più tridimensionale il concetto di identità, per allenare la nostra capacità di empatia, e per ritrovare, paradossalmente, un senso di umanità più complesso e consapevole.
Nel 1992, dopo decenni sperimentazioni artistiche in territori concettuali, astratti, metafisici, in Post Human il “corpo” è tornato prepotentemente al centro dell’indagine estetica. Un corpo diverso, ibrido, a tratti deforme: ma pur sempre un corpo. Se c’è una lezione da imparare, oggi, da quella mostra, è che la definizione di “umano” non è un concetto assoluto. L’Uncanny Valley è un naturale luogo di disorientamento, ma può trasformarsi in un luogo di scoperta. E, soprattutto, ri-scoperta. Magari finiremo per amarla, questa valle inquietante, perché ci costringe a ricordare che siamo da sempre alla ricerca di una risposta su cosa voglia dire, davvero, “essere”. Forse non è un male, dopotutto.
Immagine di copertina: Charles Ray, Fall '91, 1992, Glenstone Museum, Potomac, Maryland, Stati Uniti.
Creativo, docente ed esperto di cultura visiva, Alessandro Carnevale lavora in TV da diversi anni e ha esposto le sue opere in tutto il mondo. Nel 2020, la Business School de Il Sole 24 Ore lo ha inserito tra i cinque migliori content creator italiani in campo artistico: sui social media si occupa di divulgazione culturale, coprendo un ampio spettro di discipline, tra cui la psicologia della percezione, la semiotica visiva, la filosofia estetica e l'arte contemporanea. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche, pubblicato saggi e scritto una serie di graphic novel insieme al fisico teorico Davide De Biasio; è direttore artistico di un museo all'aperto. Oggi, come consulente, lavora nel mondo della comunicazione, della formazione e dell'educazione.