Giacinto Di Pietrantonio e la sua “Collezione Esistenziale”

Opere, ricordi e relazioni del noto critico d’arte contemporanea

28.03.25

«Sino al momento in cui, quando arrivo con un filo di metallo in mano nel tuo bunker di libri e opere d’arte a Milano, mi dici “Mettilo in equilibrio lì davanti alla mia scrivania, così quando mi siedo lo guardo e mi saluta”», scriveva nel 2020 Paolo Icaro in un ricordo emotivo su Germano Celant all’indomani dalla scomparsa del curatore.

Già, il bunker. Tema stimolante, quello delle collezioni d’arte dei curatori: esistono? Come sono nate? Ricordo che in un servizio di moltissimi anni fa Achille Bonito Oliva parlando della sua casa romana diceva di sentirsi come quei chirurghi che quando rientrano la sera dopo il lavoro non intendono trovare sangue sulle proprie pareti.

La casa di Giacinto Di Pietrantonio a Moncalieri, pochi chilometri dal centro di Torino, dove vive con la sua compagna Elisabetta Racca, ospita una «collezione esistenziale», come la definisce lui, tra i più brillanti, ironici, sagaci e intelligenti protagonisti dell’arte contemporanea in Italia, con la sua lunga storia di critico militante, curatore di istituzioni, docente di Storia dell’arte contemporanea a Brera, caporedattore di Flash Art e molto altro. Ma non siamo qui per elencare il suo Cv, quanto per esplorare assieme le opere con cui divide il proprio quotidiano.

Ma, avverte subito, «Ho delle opere, ma non si può definire una collezione se per collezione si intende qualcosa che uno va e sceglie, il 99% di queste opere sono regali di artisti con cui ho lavorato e avuto rapporto, sono opere della vita».

Sono opere che raccontano il tuo percorso curatoriale. 

«E’ un po’ il ritratto di ciò che sono io, sono opere di amici che stimo. Vivo qui dal marzo 2022, ho installato in tutte le camere le opere che ho raccolto nel tempo».

Prima dove abitavi? 

«A Como dal 2013 e prima ancora a Milano dal 1986, arrivavo a Bologna dove avevo studiato al Dams. Ma vengo da Lettomanoppello. Perché ci sono i critici che vengono dai piccoli luoghi, come Achille da Caggiano, e critici che vengono dalle grandi città, come Germano da Genova».

Qui le pareti sono tappezzate di opere. La tua collezione è tutta installata in questi ambienti?

«Quasi tutte. E le opere sono ovunque, anche nella sala da pranzo, dove ci sono opere di Marcello Maloberti e Mimmo Paladino. Di lui ho una serie di disegni che concepii nel 1992 per il progetto Territorio italiano, mostra che facemmo nel gennaio 1993. Di Paladino ho anche un disegno a matita che lui fece e mi regalò in occasione di un articolo che scrissi su Flash Art e che lui apprezzò molto».

Hai altre opere degli artisti della cosiddetta Transavanguardia?  

«Ho due tre disegni di Cucchi, tra cui una carta, un dittico con un piede, le fiamme e dei buchi sulla superficie concepiti con la sigaretta che bruciacchia. E sull’altro una ellisse. Poi, ma chiaramente non c’entra con la Transavanguardia, ho dei lavori di Luigi Ontani».

Un tableau vivant?

«Ho una fotografia di una performance del 1972, me la regalò a un mio compleanno; un’altra me la donò quando facemmo la mostra alla GAMeC, ma io non ho mai chiesto opere a nessuno, anzi ero tentato di non accettare elle volte. Di Luigi poi ho un’altra opera grande, di un metro e cinquanta, con la dedica “A Giacinto, cuor di labirinto”. Gli artisti di quelle generazioni sono più generosi».

Giacinto Di Pietrantonio, Foto di Anthony Cavarretta Giacinto Di Pietrantonio, Foto di Anthony Cavarretta

Cosa vuoi dire? 

«Garutti, Paladino, Ontani e altri artisti fino agli anni della Transavanguardia regalavano le opere, era una abitudine perché all’artista faceva piacere che se c’è stima tu possa avere una sua opera in casa. Ma chiaramente non avevano bisogno di me, il loro era un gesto generoso. Cucchi per esempio era già famoso in tutto il mondo, non aveva bisogno di un giovane critico che lo sostenesse nel lavoro. La maggior parte degli artisti che vengono dopo di loro non hanno più questo rapporto, non considerando questo gesto come qualcosa di bello. Ma è un mondo diverso quello di oggi, chiaramente. Una parte delle cause attiene al fatto che gli artisti della Transavanguardia in quegli anni esponevano sempre tra di loro o con nomi altrettanto affermati e stranieri, rifiutandosi di esporre con le generazioni più giovani. E quindi è come se si fosse interrotto un flusso del piacere della condivisione e della spontaneità dello stare assieme».

Ma c’è un’opera destinata a te che non hai però ricevuto?

«Cattelan mi aveva regalato uno Zorro durante la mostra Prima linea nel 1994, ma non la presi, ho però un altro suo lavoro con la dedica “specialissimo per Giacinto”».

Giuseppe Chiari, “Se questa è arte…”, ca. 1999. Dalla collezione di Giacinto di Pietrantonio. Giuseppe Chiari, “Se questa è arte…”, ca. 1999. Dalla collezione di Giacinto di Pietrantonio.

Te ne sei pentito?

«Per niente, anche perché io non ho mai venduto nulla, poi io non lavoro con gli artisti perché devo avere le opere. Certo, sarebbe stato meglio averla quell’opera, ma non mi dispero».

Vedo opere di Vanessa Beecroft, che è stata allieva tua e di Laura Cherubini a Brera.

«Vanessa è sempre stata generosa con me, così come Garutti, di lui ho un grande lavoro del ciclo sugli orizzonti».

Poi vedo Stampone, con un’opera concepita ad hoc per te e la tua compagna Elisabetta. Un Sottsass, poi Vedovamazzei, Giuseppe Chiari, Giulio Paolini e Jan Fabre, con cui hai molto lavorato. E c’è anche un lavoro di Adrian Paci. 

«Quello è un acquisto di Elisabetta».

Vedo anche uno specchio di Pistoletto. 

«La mano che regge la mela in quello specchio è la mia, ero da Michelangelo anni fa e mi chiese di tenere questa mela in mano e la fece fotografare. Ed è finita in uno specchio, ma è un lavoro multiplo. Poi me ne ha regalato uno».

Michelangelo Pistoletto, mela reintegrata, ca. 2015. Dalla collezione di Giacinto di Pietrantonio. Michelangelo Pistoletto, mela reintegrata, ca. 2015. Dalla collezione di Giacinto di Pietrantonio.

Nel tuo studio c’è anche la grande immagine La rivoluzione siamo noi di Joseph Beuys. Ricordo una tua fotografia, che abbiamo proiettato assieme alcuni mesi fa quando ti ho invitato a Brera a parlare del tuo lavoro, in cui sei accanto a Beuys a Bolognano per una delle tue prime interviste.

«Questo me l’hanno venduto i nipoti di Amelio, ma non è firmato. Avevano un po’ di copie non firmate e me ne sono presa una, potevo acquistarne di più, ma io non ho la testa per gli affari».

Le opere le hai installate tu?

«Installate e inchiodate una per una, con martello e una scala. Io vengo da una famiglia operaia e nelle famiglie come la mia i genitori ti insegnano a fare tutto».

Salutiamoci. Ma dimmi prima a cosa ti fa pensare questa collezione. 

«A cinquant’anni di duro lavoro in cui mi diverto molto».

Immagine di copertina: Ritratto di Giacinto Di Pietrantonio, Tommaso Pincio.

Lorenzo Madaro è curatore e professore di Storia dell'arte contemporanea all'Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, dove insegna anche Museologia del contemporaneo. 

Collabora stabilmente con il quotidiano "La Repubblica" e con il settimanale "Robinson" della stessa testata. Per le pagine milanesi del quotidiano, ha curato rubriche dedicate agli studi degli artisti in città, alle gallerie e agli archivi degli artisti e dei designer. Collabora con i Poli Biblio-museali di Puglia e con Flash Art ed è membro del comitato scientifico e curatoriale della Fondazione Biscozzi Rimbaud di Lecce. Tra le mostre recenti curate: Dimensionare lo spazio (A Arte Invernizzi, Milano, 2024), Yuval Avital. Bosco di Lecce (MUST, Lecce, 2023) Umberto Bignardi. Di nuovo a Roma (Galleria Valentina Bonomo, Roma, 2023); Pino Pinelli (Dep Art Out, Ceglie Messapica, 2023), Mimmo Paladino. Non avrà titolo (Palazzo Parasi, Cannobio, 2023); Riportando tutto a casa (Museo delle Navi Romane, Nemi, 2023); Federico Gori. L’età dell’oro (Museo nazionale di Taranto, 2022 – progetto vincitore del bando PAC del Ministero della cultura); Sebastiao Salgado (Castello di Otranto, 2022), Andy Warhol (Monopoli, Castello Carlo V, 2022), Stati della materia (Gagliardi e Domke, Torino 2021); Gianni Berengo Gardin. Vera fotografia (Castello, Otranto 2020); Umberto Bignardi. Sperimentazioni visuali a Roma (1963-1967) (Galleria Bianconi, Milano 2020); Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro (Galleria Fabbri, Milano, 2019). Ha collaborato con il MAXXI (Roma), Quadriennale di Roma, Festival della letteratura Treccani e con altre istituzioni. 

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