La creatività ai margini del caos. Arte e salute mentale
Il problema XXX.1 dei Problemata physica aristotelici, anche conosciuto come “il problema della malinconia”, si apre con una curiosa domanda: “Perché tutti coloro che sono diventati eminenti in filosofia, nella poesia o nell’arte sono chiaramente malinconici?” La risposta, per Aristotele, risiedeva nell’eccesso di “bile nera” presente nel corpo degli individui eccezionali: la "melaina chole” (μελαίνᾱ χολή in greco antico, da cui deriva il termine melancholia), era uno dei fluidi che secondo Ippocrate determinavano il temperamento e la salute di una persona.
La teoria degli umori, proposta dal padre della medicina nel IV secolo a.C., rappresenta il primo tentativo “clinico” di spiegare i disturbi mentali attraverso una struttura teorica organica. Ippocrate era convinto che il benessere psicofisico dipendesse dall'equilibrio di quattro umori: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Quest'ultima, associata al temperamento malinconico, determinava un carattere incline alla tristezza, alla riflessione e all’isolamento. Galeno, nel II secolo d.C., ampliò questa concezione, suggerendo – come Aristotele prima di lui – che un eccesso di bile nera potesse determinare uno stato di profonda malinconia (ciò che oggi chiamiamo depressione), associato non solo a un malessere fisico e mentale, ma anche a una particolare disposizione dell'animo, caratterizzata da introspezione, solitudine e, nondimeno, una spiccata propensione per la creatività.
Sono passati più di due millenni dalla formulazione del “problema della malinconia” e della teoria degli umori, ma l’immagine dell’artista solitario, incompreso e sofferente è ancora profondamente radicata nell’immaginario collettivo. Anzi, a rileggere le traiettorie della storia, ripercorrendo l’intreccio fra filosofia, letteratura, medicina e psicologia, sembra che il mito del creativo dannato e geniale abbia attraversato i secoli – seppur evolvendo insieme allo sviluppo di una crescente coscienza scientifica – senza mai perdere il proprio incredibile potere di fascinazione.
Fino al Medioevo, per intenderci, la teoria degli umori ha mantenuto un ruolo predominante nella medicina, ma si è arricchita di significati religiosi e morali. La malinconia era percepita come una condizione ambivalente: da un lato una manifestazione di uno squilibrio umorale, dall'altro un segno di profondità spirituale. Con l’avvento del Rinascimento, la visione della malinconia viene nuovamente associata alla genialità e alla creatività, soprattutto tra artisti, poeti e filosofi. La reinterpretazione del temperamento malinconico trova una delle sue espressioni più celebri nell’opera di Robert Burton, The Anatomy of Melancholy (1621), in cui sguardo clinico e legame con l’intelletto si fondono nell’analizzare una vera e propria “affezione dell’animo” degli individui straordinari.
Con l’Illuminismo e l'emersione della scienza moderna, la teoria degli umori ha inevitabilmente iniziato a perdere credibilità. La malinconia, attraverso un approccio più rigoroso e razionale nella comprensione dei disturbi mentali, comincia a essere studiata come una patologia vera e propria. Emil Kraepelin, uno dei primi psichiatri della storia, ha cercato di classificare i disturbi mentali in modo sistematico, distinguendo i vari tipi di depressione dalle altre forme di psicosi. Contemporaneamente, però, l’avvento del Romanticismo ha posto di nuovo l’accento sul legame fra arte, genio e follia: influenzati dalle idee del Sublime e del grottesco, gli artisti vedevano nella malinconia una condizione esistenziale che rifletteva la tensione tra l'ideale e la realtà.
La sensibilità accentuata, l’introspezione e la propensione alla riflessione profonda si confermano, in epoca romantica, le chiavi per accedere a livelli di creatività e ispirazione irraggiungibili in uno stato di normalità emotiva. Questa stessa sensibilità, tuttavia, era fonte di sofferenza interna – inevitabilmente associata a un senso di alienazione e inadeguatezza rispetto al mondo circostante. Baudelaire, su tutti – insieme a Verlaine e Rimbaud – incarna il sempiterno mito del “poeta maledetto”, condannato a raggiungere vette estetiche supreme attraverso l’esperienza del dolore, dell'alienazione e dell’autodistruzione. Scivolando placidamente nel mal du siècle, un senso diffuso di insoddisfazione, angoscia esistenziale e disillusione verso un mondo moderno privo di significato, i “veri” artisti non potevano che essere profondamente malinconici: la percezione acuta del vuoto dell’esistenza trovava un temporaneo rifugio nella bellezza dell’arte e della natura per sprofondare, infine e inevitabilmente, nel dolore e nella disperazione.
All'inizio del XX secolo, la psicoanalisi di Sigmund Freud apre una nuova strada metodologica e concettuale nella comprensione della depressione. Freud collega la malinconia a conflitti intrapsichici irrisolti, spesso legati alla perdita e al lutto. La sua teoria, pur focalizzandosi sugli aspetti patologici, riconosce comunque il potenziale creativo insito nel dolore e nella sofferenza mentale: anzi, testi come “Il disagio della civiltà” e, ovviamente, “Psicanalisi dell’arte e della letteratura”, indagano la manifestazione creativa come un compromesso tra le forze inconsce, spesso sessuali o aggressive, e le richieste della realtà e della censura sociale. L'opera d'arte, in buona sostanza, permetterebbe all'artista di sublimare i propri impulsi inconsci, trasformandoli in un oggetto socialmente accettabile e culturalmente significativo. Sullo sfondo, dunque, resta sempre visibile una correlazione fra sofferenza psicologica e creazione artistica: i critici del modello psicanalitico, non a caso, evidenziano il rischio “freudiano” di ridurre l'opera d'arte a una semplice espressione di nevrosi, trascurandone complessità estetica e storica.
Con l'avvento delle neuroscienze e della psicofarmacologia, a partire dagli anni ’50 la depressione ha cominciato a essere studiata in termini di squilibri neurochimici. La scoperta del ruolo della serotonina, della dopamina e della norepinefrina nella regolazione dell'umore ha permesso lo sviluppo di farmaci antidepressivi e a nuovi modelli clinico-operativi. È affascinante notare che la teoria degli umori di Ippocrate e Galeno possedeva già un impianto “biologico” che anticipava, seppur con presupposti scientificamente errati, una predisposizione alla depressione in termini genetici, individuando nello squilibrio dei quattro fluidi (che, in una certa misura, può essere letta come una visione arcaica dei neurotrasmettitori) la ragione bio-chimica del temperamento individuale. Va detto che nonostante il crescente interesse per gli aspetti biologici della depressione, la connessione tra malinconia e creatività non è mai stata abbandonata. Anzi: la cultura pop ha ripreso e trasfigurato le scoperte neuroscientifiche per confermare, talvolta in modo ingenuo e superficiale, l’idea che alcuni individui nascano con una particolare indole creativa, la quale sarebbe una diretta manifestazione dei disturbi della personalità e, ovviamente, della depressione più o meno latente.
L’artista, nell’immaginario collettivo, per la stragrande maggioranza delle persone era e rimane un individuo diverso, a volte eccentrico, talvolta solitario, finanche disadattato – in ogni caso straordinario e, per l’appunto, fuori dalla “norma”. A questo si aggiunge lo stigma delle malattie mentali che reitera e rinforza tale narrazione: se una persona psichicamente sofferente è anormale, sbagliata, debole, allora gli artisti, in una visione così normo centrica, non possono che essere percepiti come individui “speciali” poiché scontano una sofferenza che è causa diretta del loro talento. Ma cosa c’è di vero, in tutto questo? Come detto, il mito dell’artista maledetto (o, più semplicemente, “malinconico”) non sembra essere stato scalfito né dal passare del tempo, né dall’evoluzione della psicologia. Sarebbe a dir poco miope pensare che una simile narrazione sia sopravvissuta per secoli senza avere un minimo fondamento oggettivo. Ecco: cosa ci dice la scienza, oggi?
Una ricerca pubblicata nel 2019 su Nature Communications ha esaminato i dati genetici e psicometrici di oltre 300.000 persone, scoprendo che gli individui con spiccata creatività mostrano effettivamente una maggiore predisposizione a disturbi mentali come la bipolarità e la schizofrenia. I ricercatori hanno sottolineato che la creatività è quasi sempre associata a un funzionamento cognitivo superiore, evidenziando la dualità di questo legame. Qualche anno prima, un imponente studio condotto dal Karolinska Institute di Stoccolma, guidato dal ricercatore Simon Kyaga (pubblicato nel 2011 nel Journal of Psychiatric Research e successivamente aggiornato nel 2012) ha analizzato i dati di oltre 1,2 milioni di persone svedesi, utilizzando registri nazionali per tracciare le diagnosi di disturbi mentali e l'occupazione professionale dei soggetti. Anche in questo caso i ricercatori hanno trovato una maggiore incidenza di disturbo bipolare tra le persone coinvolte in professioni creative. È stata inoltre riscontrata una correlazione tra la schizofrenia e la creatività, sebbene la prevalenza fosse più marcata nei parenti di primo grado degli individui “creativi” piuttosto che nei soggetti stessi. In ogni caso è importante notare che gli studi suggeriscono solo una possibile correlazione, e mai una causalità diretta, sottolineano la complessità del rapporto tra creatività e salute mentale, il quale non può in alcun caso essere ridotto a semplici generalizzazioni.
Per essere chiari, non tutti gli artisti che raggiungono vette di innovazione soffrono di disturbi mentali, e non tutte le persone con disturbi mentali sono artisti. “Correlation does not mean causation” è un mantra che dovrebbe guidare qualunque persona che approcci seriamente gli studi in campo sociale. Ciò detto, la psicologia suggerisce, se non altro, l’esistenza d’una particolare vulnerabilità negli individui creativi: la tendenza a pensare in modo divergente, a esplorare l’ignoto, può talvolta andare di pari passo con l’instabilità emotiva. Mark Runco e Shelley Carson, due fra i più autorevoli studiosi del pensiero creativo in ambito cognitivo, psicologico e comportamentale, convergono verso un modello che potremmo ribattezzare “teoria dell’ipertrofia associativa”, secondo cui le persone creative sono particolarmente abili nel fare associazioni inusuali, grazie a una maggiore permeabilità tra le diverse categorizzazioni mentali che guidano la percezione. Studi neuroscientifici suggeriscono che l'ipertrofia associativa potrebbe essere legata a una minore inibizione latente, un processo che normalmente filtra gli stimoli irrilevanti dalla nostra coscienza. Nei “creativi” questa inibizione è ridotta, il che permette loro di cogliere dettagli e connessioni che altri non notano. Tuttavia, tale apertura mentale può esporli a un maggior rischio di pensieri intrusivi o disturbi dell'umore, come la depressione o il disturbo bipolare, e a condizioni come la schizofrenia, dove il sovraccarico di stimoli non filtrati può sfociare in episodi psicotici.
In ogni caso, le ricerche citate si concentrano prevalentemente sugli aspetti “negativi” della creatività o, quantomeno, sugli effetti indesiderati – ancor meglio, collaterali – del presunto talento artistico. A mio avviso, invece, occorrerebbe cambiare prospettiva. L'arte, indipendentemente dal grado di sofferenza degli individui, è per sua stessa natura una “cura”. Senza eccedere in stucchevoli lirismi, credo sia importantissimo focalizzarci su questo aspetto, nel tentativo di modificare il paradigma che associa arte, depressione e disturbi mentali. Il potere terapeutico dell’arte, dopotutto, è stato ampiamente esplorato in innumerevoli studi scientifici. Decine di ricerche hanno dimostrato che impegnarsi in attività creative genera effetti positivi sulla salute mentale, riducendo i sintomi di ansia, depressione e stress. Un ampio studio condotto da Jennifer Drake e collaboratori (2014) ha evidenziato come il disegno, per fare un esempio semplice e immediato, riduce significativamente i livelli di ansia: l’effetto catartico è particolarmente pronunciato per coloro che trovano difficile verbalizzare i propri sentimenti, poiché l'arte permette di canalizzare il disagio emotivo in una forma costruttiva e visivamente tangibile. Ma tutte le persone coinvolte nei test, mi preme sottolinearlo, hanno avvertito un beneficio concreto e misurabile.
L'arte migliora la qualità della vita: e funziona per chiunque. Le attività creative stimolano il cervello e promuovono la neuroplasticità, un fattore essenziale per la resilienza mentale. Uno studio sistematico di Leckey (2011) pubblicato nel Journal of Psychiatric and Mental Health Nursing, ha dimostrato che l'arte favorisce il benessere psicologico migliorando l'autostima, il senso di identità e la capacità di fronteggiare le sfide della vita quotidiana. Incrociando i dati di decine di ricerche passate, Leckey ha riscontrato che la partecipazione a programmi di arteterapia viene sempre associata a un miglioramento delle relazioni interpersonali e a una maggiore partecipazione sociale. Ovviamente gli individui che affrontano l’isolamento legato alla stigmatizzazione delle malattie mentali hanno avvertito benefici maggiori, ma questo non significa che il potere terapeutico dell’arte limiti il proprio perimetro d’esercizio nei confronti di persone con problematiche psicologiche. Al contrario, dimostra che ognuno di noi può trovare un beneficio reale, concreto e tangibile nella fruizione artistica e nello svolgimento di attività creative.
Considerando la marginalità dell’arte contemporanea – almeno rispetto alla dimensione quotidiana della stragrande maggioranza delle persone – mi sembra opportuno, se non necessario, evidenziare soprattutto il legame “positivo” fra creatività e salute mentale al posto di reiterare il mito dell’artista maledetto, il quale rischia di trasformarsi nell’ennesimo stereotipo che iper-semplifica una realtà estremamente complessa. Ogni tentativo di riavvicinare l’arte al “sentire” collettivo (creando spazi inediti di fruizione, confronto e contaminazione positiva) possiede, aldilà dell’ovvia importanza culturale, anche un enorme potenziale per la salute psicologica, personale e – per estensione – sociale del nostro mondo contemporaneo.
Creativo, docente ed esperto di cultura visiva, Alessandro Carnevale lavora in TV da diversi anni e ha esposto le sue opere in tutto il mondo. Nel 2020, la Business School de Il Sole 24 Ore lo ha inserito tra i cinque migliori content creator italiani in campo artistico: sui social media si occupa di divulgazione culturale, coprendo un ampio spettro di discipline, tra cui la psicologia della percezione, la semiotica visiva, la filosofia estetica e l'arte contemporanea. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche, pubblicato saggi e scritto una serie di graphic novel insieme al fisico teorico Davide De Biasio; è direttore artistico di un museo all'aperto. Oggi, come consulente, lavora nel mondo della comunicazione, della formazione e dell'educazione.