Pixel, robot ed empatia
L'arte nell'era del narcisismo digitale
Nei corsi di Digital Marketing s’insegna che i contenuti social performano molto meglio se includono il volto di una persona: in media ottengono il 38% di “mi piace” in più rispetto a qualunque altro genere di post.
Di riflesso, nelle piattaforme dal taglio più “visivo” – come Instagram e TikTok – oltre sette contenuti su dieci sono costruiti intorno a una persona, sia essa ritratta in foto o ripresa in un video. Considerando che un utente medio spende circa due ore della propria giornata sui social media, durante le quali “scrolla” migliaia di contenuti, non è difficile comprendere che oggi osserviamo (e, seppur virtualmente, interagiamo con) una quantità spropositata di altri esseri umani, probabilmente come mai successo prima nella storia.
La rivoluzione digitale, di fatto, ha cambiato i paradigmi della socializzazione contemporanea: se, da un lato, è vero che nella rete possiamo estendere i nostri contatti quasi all’infinito, dall’altro i rapporti umani “mediati” dalla tecnologia possiedono un’impronta parasociale che ne compromette la natura più intima e profonda. Aldilà delle considerazioni speculative e retoriche che si possono spendere sull’argomento (la questione, dopotutto, è già stata sviscerata in milioni di pubblicazioni accademiche, saggi e documentari), esiste un’interessantissima lettura psicologica della “socialità ai tempi dei social” che unisce la ricerca neuroscientifica agli “effetti” della fruizione artistica: sto parlando, per intenderci, del rapporto che unisce arte ed empatia.
Ora, nella definizione più comune e pop del termine, l'empatia viene generalmente descritta come la capacità di "mettersi nei panni degli altri”, ovvero la facoltà di comprendere e condividere i sentimenti o le emozioni di un’altra persona. Dal punto di vista scientifico, tuttavia, il concetto è molto più articolato. Iniziamo col dire che esistono due diverse tipologie di empatia: quella cognitiva, che indica la capacità di comprendere la prospettiva e i sentimenti dell’altro – ma senza provare le stesse emozioni – e quella emotiva, la quale si riferisce, invece, alla capacità di sperimentare personalmente le emozioni che riconosciamo in un altro essere umano, in modo spontaneo e viscerale. Le neuroscienze, attraverso gli esperimenti di risonanza magnetica funzionale condotti da Tania Singer, hanno dimostrato che i due diversi tipi di empatia coinvolgono aree cerebrali completamente differenti: l’empatia cognitiva attiva aree legate al ragionamenti e all’astrazione, come la corteccia prefrontale, mentre quella emotiva coinvolge l’amigdala e altre strutture del sistema limbico, sede della memoria emozionale.
Negli ultimi decenni, diverse ricerche hanno portato alla luce una tendenza piuttosto eloquente: stiamo assistendo a un significativo declino dei livelli di empatia, specialmente tra i giovani adulti. Un noto studio pubblicato nel 2010 da Sara Konrath, Edward O’Brien e Courtney Hsing, ricercatori presso l'Università del Michigan, ha rilevato che l'empatia tra gli studenti universitari statunitensi è diminuita del 40% nel corso degli ultimi trent'anni. Tale riduzione, documentata in uno dei più vasti studi longitudinali sull’argomento, è stata “misurata” utilizzando l’Interpersonal Reactivity Index (IRI), uno degli strumenti psicometrici più diffusi nella comunità scientifica. L’IRI, sviluppato negli anni '80 da Mark Davis, suddivide l’empatia in quattro dimensioni principali: la Perspective Taking, ovvero la capacità cognitiva di assumere il punto di vista di un’altra persona e comprendere le sue intenzioni e i suoi pensieri; l’Empathic Concern, intesa come la tendenza a provare sentimenti di preoccupazione e compassione per il prossimo; la Personal Distress, cioè la risposta emotiva auto-centrata allo stress altrui; e infine la Fantasy Scale, ovvero la capacità di immedesimarsi in situazioni immaginarie e narrative.
Nello studio di Konrath e colleghi, i dati sono stati raccolti attraverso un campione di circa 14.000 studenti universitari tra il 1979 e il 2009; il lungo arco temporale in esame ha permesso di rilevare cambiamenti significativi nei vari aspetti dell’empatia, con una particolare riduzione delle due dimensioni socialmente più rilevanti: Empathic Concern e Perspective Taking. L’aspetto più interessante è che la diminuzione nei livelli di empatia si è concentrata soprattutto negli anni successivi al 2000, suggerendo una correlazione con i cambiamenti culturali e tecnologici che si sono intensificati in quel periodo.
Già prima della rivoluzione digitale – che, a ben vedere, ha esasperato una tendenza già ampiamente consolidata – la creazione di una cultura sempre più orientata all’individualismo sembra aver contribuito attivamente al declino dell’empatia. A partire dagli anni ’80, volendo riassumere brutalmente la questione, nelle società occidentali sono stati enfatizzati valori come l’autosufficienza, il successo personale e l’indipendenza, a discapito della cooperazione e della preoccupazione per la collettività. Il fenomeno è stato ampiamente documentato in autorevoli studi sociologici come quelli di Robert Putnam, autore di Bowling Alone – un saggio che descrive il declino del capitale sociale e delle reti comunitarie – o dal celeberrimo Modernità Liquida di Zygmunt Baumann, che, a quasi 25 anni dalla sua prima edizione, descrive ancora perfettamente la frammentazione delle società contemporanee.
Con l’avvento e l’ascesa dei social media, le interazioni superficiali mediate dalle piattaforme hanno promosso la costruzione di un’immagine artificiale del proprio Io “pubblico” virtuale. Già nel 2015 Sherry Turkle, all’interno del libro Reclaiming Conversation, spiegava come la comunicazione online abbia progressivamente ridotto le opportunità per conversazioni profonde e riflessive, che sono alla base dello sviluppo dell'empatia; solo un anno prima, proprio quando in Italia esplodeva il fenomeno Instagram, uno studio pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior mostrava che i giovani che passano più tempo sui social media tendono a mostrare maggiori tendenze narcisistiche.
A questi dati (ben noti a chi possiede una certa dimestichezza con le questioni sociologiche legate ai new media) si aggiunge un concetto particolarmente rilevante per comprendere il momento storico in cui viviamo: l’overload informativo. La faccio breve: gli esseri umani non sono predisposti a elaborare enormi quantità di informazioni emotive in breve tempo. Tuttavia, i social media ci espongono costantemente a immagini di sofferenza umana, guerre, crisi umanitarie, disastri naturali e ingiustizie sociali. Di fronte a questa mole di stimoli, emerge un fenomeno noto come “compassion fatigue”, un esaurimento emotivo che rende difficile continuare a rispondere con empatia a situazioni di sofferenza. Inizialmente studiato in contesti clinici, soprattutto tra i professionisti della sanità e del soccorso umanitario, la compassion fatigue è oggi entrata nel dizionario del mondo dei social media per descrivere il distacco emotivo che sembra imperversare all’interno di una rete iperconnessa. Già nel 1958, in un articolo pubblicato sul New York Times, una frase erroneamente attribuita a Stalin recitava “un morto è una tragedia, un milione di morti è una statistica”: la rivoluzione digitale, anche in questo caso, sembra aver esasperato una tendenza che possiede delle radici molto profonde. Esiste un “caso” artistico che riassume alla perfezione questo concetto: è una storia di fake news, indignazione, viralità, meme e finzione – una storia di arte ed empatia.
Nel 2016 gli artisti cinesi di Sun Yuan e Peng Yu hanno realizzato ed esposto alla Biennale di Venezia l'opera Can't Help Myself, un robot programmato per pulire costantemente un fluido che si allontana progressivamente dal centro del basamento, in corrispondenza del montante su cui è innestato il braccio meccanico. Il significato dell'opera, secondo gli artisti, ruota attorno al concetto di controllo e fallimento. Malgrado gli “sforzi” incessanti, il robot non può fisicamente portare a termine il suo compito: è programmato per fallire all’infinito. La lotta continua e futile con il liquido simboleggia la condizione umana, la nostra incapacità di contenere ciò che è incontrollabile, sia a livello personale che sociale. Nello specifico, Sun Yuan e Peng Yu hanno dichiarato di essersi ispirati alle politiche di controllo dell’immigrazione che, in quel periodo, erano al centro del dibattito elettorale per le presidenziali americane.
L’opera ottiene subito un discreto successo – ma nulla di davvero eclatante. Tre anni più tardi, però, le cose cambiano completamente. Nel 2019 Can't Help Myself viene esposta al Guggenheim di New York. Durante questa seconda installazione, l’usura delle componenti meccaniche faceva apparire il robot più arrugginito e "stanco". I movimenti del braccio robotico erano rallentati, indeboliti, e producevano uno stridio acuto simile a un urlo di dolore. Sui social iniziano a circolare dei video comparativi che mostrano il decadimento dell’opera. Qualcuno inizia a sostenere che il fluido rosso incessantemente raccolto dal robot sia in realtà un liquido idraulico che “tiene in vita” la macchina. Presentata così, la storia diventa il materiale perfetto per Reel e TikTok virali: breve, semplice, potentissima. Nasce un vero e proprio trend che racconta la storia del robot “più triste del mondo”, condannato a lavorare senza sosta per sopravvivere fra atroci sofferenze.
La leggenda metropolitana si trasforma in fake news, e come tutte le storie che giocano sulle emozioni immediate scatena un dibattito inferocito: fra i milioni di commenti prodotti sui social, gli utenti si dividono tra chi si commuove per la macchina e chi trova assurdo provare empatia per un robot che non può, in alcun modo, sperimentare dolore. La gente litiga, le interazioni aumentano, i video diventano sempre più virali. Nel frattempo scoppia la pandemia, iniziano guerre, catastrofi naturali devastano mezzo mondo: eppure quel braccio meccanico continua a commuovere (o a far imbestialire) chiunque s’imbatta nei contenuti che raccontano la sua – falsa – storia di sacrificio ed eroica sopravvivenza.
Il motivo per cui Can't Help Myself ha generato una risposta così intensa è l’incredibile potere della narrazione. L'empatia umana funziona meglio quando possiamo relazionarci a storie individuali e circostanze particolari: un robot che combatte una battaglia persa contro una forza inarrestabile diventa il simbolo di una tragedia personale, mentre le sofferenze umane reali di milioni di persone, se rappresentate in modo analitico, giornalistico, impersonale, diventano troppo distanti, astratte o sopraffacenti per stimolare lo stesso livello di risposta emotiva.
Se ricordate, una delle dimensioni che descrivono l’empatia nell'Interpersonal Reactivity Index è la Fantasy Scale, ovvero la capacità di immedesimarsi in situazioni immaginarie. La narrazione, in buona sostanza, permette agli individui di immergersi in situazioni strutturate, costruite “a misura d’uomo”, facilitando l’attivazione di aree cerebrali legate all’elaborazione emotiva. Le persone sono più inclini a empatizzare con un racconto chiuso e comprensibile, come la lotta disperata di un robot in un museo, piuttosto che con le sofferenze astratte di un grandissimo numero di persone. L’arte, in definitiva, ci aiuta a entrare in contatto con il nostro serbatoio di memoria emozionale anche quando non raffigura direttamente la condizione umana, stimolando forti risposte empatiche. Il caso di Can’t Help Myself possiede un altro aspetto da considerare con attenzione: la serendipità. La compassione prodotta da robot nasce da una storia in cui gli utenti s’imbattono per puro caso; nessuno, a ben vedere, si aspetta di provare empatia per un braccio meccanico: eppure, scoprendo la lotta disperata del robot per la sopravvivenza (per quanto simbolica e frutto di una fake news), le persone restano intimamente colpite dal racconto.
In questo contesto, l'arte e i nuovi media possiedono davvero il potenziale di contrastare l'assuefazione emotiva indotta dalla compassion fatigue, a patto che riescano a tradurre concetti astratti in esperienze “visibili”. Anche nel mondo digitale, la chiave rimane la narrazione: l’arte può seriamente aiutare a risvegliare la nostra capacità di provare empatia e a farci riflettere su questioni più ampie e complesse. Questo articolo ne è un esempio lampante: il “robot più triste del mondo” ha prodotto un ragionamento sociologico, psicologico e neuroscientifico lontano dalle intenzioni originali degli artisti, anche in virtù della viralità scaturita da una distorsione narrativa dell’installazione – ma questo non implica che l’opera abbia un minor valore culturale. Anzi: l’arte, non mi stancherò mai di ripeterlo, possiede sempre una dimensione relazionale; nasce sempre dall’incontro fra artista, creazione e spettatore. Il significato dell’opera muta, evolve, ridefinisce costantemente i propri confini concettuali.
Sarò brutale: la gente s’incazza perché un robot che pulisce un pavimento genera più emozioni di una scuola distrutta in un bombardamento? Bene. Finalmente. Era ora che qualcuno notasse la deriva emozionale che ci circonda. E di cui facciamo inesorabilmente parte. Allo stesso tempo, però, apprezzo chi osserva Can’t Help Myself e prova compassione, alimentando – si spera – una riflessione introspettiva sull’alienazione contemporanea, il dolore (?) di una macchina che sembra aver preso coscienza (dopotutto, lo sviluppo esponenziale dell’IA non lo rende affatto uno scenario così remoto) o il valore che attribuiamo alla vita, al nostro tempo, alla svilente ripetizione dell’identico. È tutto positivo. Tutto giusto, tutto sacrosanto – questo purché il dibattito, la discussione, il confronto escano dalla “bolla” che li ha generati. L’arte non salverà il mondo, ma è un vettore emotivo e intellettuale potentissimo. Il valore di un’opera, senza retorica, lo stabilisce chi la osserva: l’importante è costruire delle occasioni di incontro genuino. Perfino di scontro, se necessario. Aldilà dell’estetica, gli artisti ci permettono di guardare la realtà in modo diverso. Non accade sempre, ma quando succede può nascere una piccola rivoluzione.
Immagine copertina: Sun Yuan e Peng Yu, Can't Help Myself
Creativo, docente ed esperto di cultura visiva, Alessandro Carnevale lavora in TV da diversi anni e ha esposto le sue opere in tutto il mondo. Nel 2020, la Business School de Il Sole 24 Ore lo ha inserito tra i cinque migliori content creator italiani in campo artistico: sui social media si occupa di divulgazione culturale, coprendo un ampio spettro di discipline, tra cui la psicologia della percezione, la semiotica visiva, la filosofia estetica e l'arte contemporanea. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche, pubblicato saggi e scritto una serie di graphic novel insieme al fisico teorico Davide De Biasio; è direttore artistico di un museo all'aperto. Oggi, come consulente, lavora nel mondo della comunicazione, della formazione e dell'educazione.