
Intervista a Rebecca Shaykin: la mostra "Draw Them In Paint Them Out" a New York
La curatrice del Jewish Museum racconta il dialogo tra gli artisti Trenton Doyle Hancock e Philip Guston su razzismo, antisemitismo e memoria storica.
Visitare mostre ben progettate e stimolanti a New York è un’esperienza intellettualmente appagante, e questa doppia esposizione ne è un esempio perfetto: porta a riflettere, a mettere in discussione e a osservare le opere con un nuovo sguardo. L’idea di un’arte al servizio della giustizia sociale, come espressa nelle opere di Trenton Doyle Hancock e Philip Guston, trova qui piena realizzazione. La mostra è curata da Rebecca Shaykin del Jewish Museum e per Spaghetti Boost le ho rivolto alcune domande su questa esposizione di grande rilevanza politica.
NCM: Come è nata l'idea di questa mostra?
RS: L’idea di questa esposizione risale a diversi anni fa. Negli Stati Uniti abbiamo assistito a un aumento senza precedenti degli attacchi antisemiti e della violenza razzista, a partire dal 2017 con il raduno “Unite the Right” a Charlottesville, in Virginia. In quegli episodi stavamo iniziando a riconoscere le radici comuni di antisemitismo e razzismo dell’ideologia suprematista bianca e come museo ebraico, sentivamo il dovere di affrontare questa crisi.
Il nostro pensiero è andato subito a Philip Guston, il grande pittore ebreo del XX secolo, che alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70 ha realizzato numerose opere satiriche sul Ku Klux Klan. Ci chiedevamo come rendere questi lavori più attuali e pertinenti al nostro tempo. Quando mi sono imbattuta nelle opere di Trenton Doyle Hancock, in particolare nella serie Step and Screw, mi è stato subito chiaro che sarebbe stato l’accostamento perfetto per parlare del presente, ma anche del passato e del futuro. Era fondamentale creare un dialogo tra un artista ebreo e un artista nero, per affrontare insieme questi temi e riflettere su come andare avanti.
NCM: Qual è stata la risposta del pubblico a questa mostra?
RS: La risposta è stata straordinariamente positiva. Ogni volta che si allestisce una mostra con un forte impatto politico e che tocca temi delicati, è fondamentale assicurarsi di farlo nel modo giusto. Siamo molto soddisfatti del risultato finale, e il riscontro del pubblico riflette la profondità del nostro lavoro e l’approccio accurato che abbiamo adottato.
Abbiamo organizzato un’anteprima privata la sera dopo le elezioni, un momento estremamente difficile, ma si è rivelata la scelta giusta. Questa mostra è arrivata in un periodo storico che non avremmo mai potuto prevedere, e certamente non avremmo mai sperato. Abbiamo capito immediatamente che avrebbe fornito alle persone un canale per esprimere la loro rabbia e frustrazione, ma anche un’opportunità per stare insieme e creare una connessione personale con i due artisti.
NCM: La scelta di opere che riflettono i problemi affrontati da Guston, considerando anche la sua eredità ebraica è stata intenzionale e, se sì, perché?
RS: Non direi che Guston avesse un problema con le sue origini ebraiche, ma sicuramente ha riflettuto sulla sua identità di ebreo integrato. Per noi era importante inquadrare i suoi lavori sul Klan nel contesto della sua biografia e della sua esperienza personale come artista ebreo-americano, che da giovane aveva persino cambiato nome per integrarsi meglio. Essendo un’istituzione legata all’identità culturale, utilizziamo spesso l’interpretazione biografica come guida per il nostro approccio curatoriale. Negli anni ’30, molti artisti ebrei hanno scelto di integrarsi in risposta alla crescente ondata di antisemitismo negli Stati Uniti e all’ascesa dell’ideologia nazista in Europa. Le persone reagivano e si adattavano alle circostanze in cui si trovavano.
NCM: Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di curare una mostra politicamente sensibile come questa?
RS: Quando si realizza una mostra in parte ispirata agli eventi attuali, lavorando però con un’istituzione che richiede tempo per pianificare, sviluppare e allestire l’esposizione, si presentano delle sfide. Non possiamo sempre prevedere come sarà il contesto politico e sociale al momento dell’apertura della mostra. L’idea per questa esposizione mi è venuta sette anni fa, e ho iniziato a lavorarci seriamente quattro anni fa. Non sapevamo se, nel 2024, il tema sarebbe stato ancora rilevante. Purtroppo, a causa della natura ciclica della storia e della rinnovata ascesa dell’ideologia suprematista bianca, il tema è diventato ancora più attuale di quanto avremmo immaginato. Il vantaggio, tuttavia, è che il pubblico sta rispondendo in modo molto personale. È un argomento che riguarda tutti, in un modo o nell’altro. Vedere persone di diverse origini entrare nella mostra e riconoscersi nelle opere esposte è estremamente gratificante.
NCM: Qual è il ruolo di un'istituzione culturale in questo mondo mutevole di ideologia di destra in ascesa? Come possono rimanere socialmente rilevanti?
RS: Il ruolo principale dei musei è quello di essere centri di educazione pubblica. Dobbiamo essere luoghi che favoriscono il dialogo e stimolano il dibattito, sia sul passato che sul presente. Siamo un museo ebraico, ma anche un museo d’arte, e il nostro compito è offrire agli artisti una piattaforma per confrontarsi con la storia e il mondo contemporaneo, permettendo loro di far sentire la propria voce. Dobbiamo continuare a lasciarci guidare dagli artisti in questo momento complesso.
Immagine di copertina: Installation view di Draw Them In Paint Them Out, Jewish Museum, NY, 8 novembre 2024-30 marzo 2025. Fotografia di Gregory Carter / Document Art
Nina Chkareuli-Mdivani è una curatrice, scrittrice e ricercatrice indipendente di origine georgiana e residente a New York. È autrice di King is Female (2018), la prima pubblicazione che indaga le questioni dell'identità di genere nel contesto della trasformazione storica, sociale e culturale dell'Europa orientale negli ultimi due decenni. Nel corso della sua carriera ha tenuto conferenze in tutto il mondo e pubblicato numerosi articoli per riviste come E-flux, Hyperallergic, Flash Art International, Artforum, MoMa.post, The Arts Newspaper e molte altre.
La sua ricerca si addentra nell'intersezione tra storia dell'arte, museologia e studi sulla decolonizzazione, con particolare attenzione all'arte totalitaria e alla teoria del trauma, temi che ha esplorato anche nelle oltre dieci mostre che ha curato a New York, in Germania, Lettonia e Georgia.