Il volto negato

La negazione e l’assenza nei ritratti contemporanei. Solo una nuova tendenza degli artisti o una vera e propria ribellione sociale?

07.01.25

C’è un’opera di Adrian Ghenie, “Pie Fight Study”, in cui un uomo ben vestito sta distruggendo il suo stesso volto: le mani della figura affondano nella pittura a olio – letteralmente – per trascinare l’impasto di colori in un grumo di materia. Non c’è rabbia nel suo gesto, né dolore. Solo la tensione raccolta in un’auto manipolazione che restituisce una freddezza glaciale, certamente disturbante. A guardarlo, l’impressione è che l’artista ci stia invitando a confrontarci con un’umanità che si dissolve sotto i nostri occhi. Sembra che quell’uomo, per estensione, incarni un oscuro desiderio umano che si contrappone al primordiale istinto di conservazione, quasi a voler cancellare ogni possibile “ritratto”, inteso come atto estetico.

L’opera di Ghenie, talentuosissimo artista Rumeno, è solo uno dei molteplici esempi di una tendenza che, di recente, si sta progressivamente affermando nella pittura figurativa: i “volti”, fra cancellazioni, censure, distorsioni e metamorfosi, stanno via via scomparendo dalle tele contemporanee. Va detto che esistono, com’è naturale, numerose prospettive per analizzare questo curioso “trend”: i più maliziosi, tanto per cominciare, potrebbero liquidare la questione asserendo che gli artisti sono semplicemente incapaci di dipingere dignitosamente i volti umani. Mi sembra, in tutta onestà, un’ipotesi legittima ma capziosa, soprattutto alla luce della qualità pittorica espressa nelle opere degli artisti che scelgono deliberatamente di “censurare” i volti all’interno dei propri lavori. Fatico a credere che un’abilissima pittrice come Henrietta Harris, solo per fare un esempio, abbia scelto di oscurare i volti presenti nella serie “Fixed It” per compensare delle lacune tecniche.

Henrik Uldalen, Rift , 2016-2021, Olio su Legno, 30 x 30 cm, Courtesy of JD Malat Gallery Henrik Uldalen, Rift , 2016-2021, Olio su Legno, 30 x 30 cm, Courtesy of JD Malat Gallery

Ritengo più plausibile, semmai, che gli artisti contemporanei si stiano ribellando alla centralità storica del ritratto per esplorare nuove possibilità stilistiche e concettuali. Per secoli, forse millenni, il volto è stato il simbolo per eccellenza dell’individualità. Non solo: il ritratto, se commissionato da monarchi, autorità religiose e nobili aristocratici, agiva come un vero e proprio “status symbol” del potere economico e dell’autorità di chi poteva permettersi il lavoro di un artista. E anche uscendo dalle logiche del “pittore di corte”, i ritratti sono quasi sempre serviti per catturare l’essenza del soggetto, restituendo una visione che celebra la persona e la personalità. Questa narrazione oggi sembra essere entrata definitivamente in crisi. Gli artisti che scelgono di cancellare i volti nei loro lavori non distruggono solo un simbolo: lo trasformano in un vuoto, in un invito – forse – a ripensare ciò che significa essere umani, anelando a un’universalità dell’arte che si scontra con la frammentazione individualistica di una società iper-soggettivata.

Henrik Uldalen, Trance, Olio su legno, 120 x 180 cm, 2018, Courtesy of JD Malat Gallery Henrik Uldalen, Trance, Olio su legno, 120 x 180 cm, 2018, Courtesy of JD Malat Gallery

Ora, mi sembra di ribadire l’ovvio: ma viviamo davvero in un'epoca in cui il volto umano domina qualunque forma di comunicazione visiva. Dai selfie agli avatar iperrealistici generati con l’AI, dai video in 9:16 (il formato perfetto per un primo piano) alle immagini di profilo, il viso è diventato il simbolo per eccellenza della nostra “individuazione” – intesa, per l’appunto, come trionfo dell’individuo – tecnologica. È il punto focale attraverso cui costruiamo identità, veicoliamo emozioni e creiamo connessioni e relazioni parasociali. Di fronte a questa sovraesposizione, gli artisti sembrano rispondere con un atto di rivoluzione visuale.

Henrik Uldalen, su tutti, è diventato famosissimo (soprattutto in rete, ed è un aspetto su cui torneremo fra poco) per i suoi ritratti iperrealisti in cui i volti, dipinti con assoluta maestria, vengono dissolti in pennellate astratte, quasi a “dimostrare” – termine cruciale – che ciò che vediamo è “solo” la superficie di una tela. La sua pittura non è un ritratto tradizionale, ma un dialogo tra la perfezione tecnica e la negazione dell’identità. Parimenti, il suo gesto è anche concettuale (e molto “pratico”): in un mondo dove il volto domina la comunicazione, cancellarlo significa spostare l'attenzione su qualcos'altro – la qualità del medium, l'atto stesso del dipingere. Mostrare un volto perfettamente dipinto non è più sufficiente per catturare l’attenzione degli utenti digitali: gli artisti devono restituire immediatamente il valore tecnico del loro lavoro, e lo fanno mostrandone apertamente il processo, la materialità, l’imperfezione (sebbene voluta e artificiale, a conti fatti).

Henrik Uldalen, Untitled, Olio su Legno, 180 x 120cm, 2019, Courtesy of JD Malat Gallery Henrik Uldalen, Untitled, Olio su Legno, 180 x 120cm, 2019, Courtesy of JD Malat Gallery

Quando Uldalen dissolve i volti delle sue figure, ci invita a guardare oltre il soggetto, guidando lo sguardo verso la pittura stessa: il modo in cui il colore si stende sulla tela, il movimento della mano invisibile che crea – e, talvolta, distrugge. Questa attenzione al medium è un modo per distinguersi in un panorama visivo dominato dall’immagine digitale, un ritorno alla materialità in un’epoca di virtualità. Come giustamente osserva la critica d'arte Rosalind Krauss, l’arte figurativa contemporanea tende sempre più a concentrarsi sulla "specificità del medium": sulla capacità unica della pittura di comunicare attraverso la materialità e la texture. Nella iperrealtà digitale, dove tutto è immateriale e riproducibile, gli artisti riaffermano la presenza fisica dell’opera, e lo fanno rendendo visibile il gesto pittorico. 

Henrik Uldalen, Exhale, Olio su Legno, 150 x 300 cm,  2018, Courtesy of JD Malat Gallery Henrik Uldalen, Exhale, Olio su Legno, 150 x 300 cm, 2018, Courtesy of JD Malat Gallery

Ma se il volto scompare, si può ancora parlare di “ritratto”? La distorsione figurativa del vito, finanche la sua parziale dissoluzione nella materia pittorica, è solo una delle tante possibilità espressive che emergono nella tendenza figurativa contemporanea. Come accennato, nascondere il volto non è una semplice negazione, ma anche – talvolta, almeno – una strategia consapevole per amplificare il significato universale di un’opera. In qualunque ritratto tradizionale, il volto racconta sempre una storia specifica, sebbene implicita: la pittura definisce e cristallizza un’identità unica di un individuo riconoscibile. È, nella mente dello spettatore, un “altro da sé”. Eliminare il viso, con tutte le possibilità tecniche annesse a questa pratica censoria, dissolve necessariamente la dimensione individuale, trasformando il soggetto in un simbolo, in una sorta di contenitore aperto in cui lo spettatore può proiettare sé stesso.

Hélène Delmaire, Glitch II, olio su legno, 2018 Hélène Delmaire, Glitch II, olio su legno, 2018

Dal punto di vista psicologico, questo fenomeno può essere spiegato attraverso la teoria dell’identificazione simbolica. Già Carl Jung, parlando di archetipi universali – immagini collettive che abitano l’inconscio umano –, spiegava che il potere simbolico di un testo visivo si manifesta più intensamente quando viene legato a un individuo specifico. Un volto “negato”, in questo senso, diventa un’idea, una rappresentazione della condizione umana condivisa a livello narrativo e fenomenologico. L’assenza di lineamenti distintivi consente allo spettatore di entrare nell’opera senza le barriere che un’identità precisa potrebbe erigere, creando un legame empatico più profondo.

Bobbi Esser, The World at Our Command, 245 x 300 cm, pittura a olio su tela, 2024, Courtesy of Unit Gallery Bobbi Esser, The World at Our Command, 245 x 300 cm, pittura a olio su tela, 2024, Courtesy of Unit Gallery

Le neuroscienze supportano questa intuizione. Studi sull’attivazione delle aree cerebrali durante l’osservazione di opere d’arte, come quelli condotti da Oshin Vartanian (di cui abbiamo già discusso in altri articoli sul magazine), mostrano che la vaghezza o l’ambiguità in una rappresentazione visiva stimolano una maggiore attività nei centri legati all’immaginazione e alla proiezione personale. In altre parole, ciò che non è connotato in modo fedele alla realtà formale – come un volto nascosto o cancellato – invita lo spettatore a completare l’immagine con i propri pensieri, emozioni e ricordi. L’opera, seguendo questo principio, si trasforma in uno specchio psicologico – un luogo “estetico” in cui ognuno può riconoscere una parte di sé. Paradossalmente, quindi, un’opera che rifiuta di rappresentare un volto specifico riesce a parlare direttamente all’umanità collettiva. Eliminare l’individualità, messa in questi termini, non è una perdita, ma una conquista: il soggetto diventa il simbolo di un’esperienza universale, capace di evocare emozioni e significati che trascendono i confini della persona dipinta. È una forma di democratizzazione dell’arte, che non appartiene più al soggetto ritratto, ma a chiunque la osservi.

Hélène Delmaire, Still Life With Flowers IV, olio su legno, 2015 Hélène Delmaire, Still Life With Flowers IV, olio su legno, 2015

Censurare il volto, infine, è anche un modo per mettere in discussione le dinamiche di potere che si nascondono dietro la sua rappresentazione. I social media, per tornare al panorama contemporaneo iperconnesso, non sono mai davvero neutrali: premiano certi tipi di volti, certi standard di bellezza, certi modi di esibirsi. Negare il volto significa negare queste dinamiche, rifiutare di partecipare a un sistema che riduce l’individuo a un’immagine consumabile.

In questo senso, gli artisti non stanno solo reagendo a un’estetica dominante: stanno costruendo una critica “politica” e culturale. In un mondo in cui il volto è mercificato, cancellarlo significa affermare il valore dell’invisibile, dell’inaccessibile, del non detto: considerando l’infodemia visiva del mondo digitalizzato, si tratta di una gran bella rivoluzione.

Immagine di copertina: Hélène Delmaire, Marie (eyeless girls series), oil on wood, 2017

Creativo, docente ed esperto di cultura visiva, Alessandro Carnevale lavora in TV da diversi anni e ha esposto le sue opere in tutto il mondo. Nel 2020, la Business School de Il Sole 24 Ore lo ha inserito tra i cinque migliori content creator italiani in campo artistico: sui social media si occupa di divulgazione culturale, coprendo un ampio spettro di discipline, tra cui la psicologia della percezione, la semiotica visiva, la filosofia estetica e l'arte contemporanea. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche, pubblicato saggi e scritto una serie di graphic novel insieme al fisico teorico Davide De Biasio; è direttore artistico di un museo all'aperto. Oggi, come consulente, lavora nel mondo della comunicazione, della formazione e dell'educazione.

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