L'arte dell'immediatezza. Processing Fluency Theory, sfide cognitive e piacere estetico
Nel 1927, nel cuore di una Berlino in fermento culturale, il noto psicologo tedesco Max Wertheimer ricevette una strana lettera che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua carriera. La lettera proveniva da un suo vecchio amico, Otto Baumer, un appassionato d’arte e collezionista che, affascinato dai nuovi movimenti artistici dell'epoca, cercava di capire perché alcune opere catturassero immediatamente l'attenzione del pubblico.
Otto Baumer aveva appena visitato una mostra di arte astratta, notando un fenomeno curioso: le persone si fermavano più a lungo davanti a un piccolo gruppo di opere, dedicando alle altre solo pochi secondi del loro tempo. Intrigato, scrisse a Wertheimer per chiedergli se esistesse una spiegazione psicologica per giustificare la peculiare reazione dei visitatori.
Wertheimer, all’epoca già affermato nella comunità scientifica per i suoi lavori sulla psicologia della Gestalt, era sempre stato affascinato dal modo in cui percepiamo forme e immagini, e la lettera di Baumer accese in lui una scintilla di curiosità. Non solo rispose al suo amico, ma decise di approfondire la questione, convinto che dietro quella domanda si celasse una verità psicologica sulla natura umana.
"Caro Otto," scrisse, "la tua osservazione mi ha colpito profondamente. Mi chiedo se la percezione immediata non sia un aspetto intrinseco della nostra psiche. Forse ciò che sembra subito comprensibile agli occhi è quello che la nostra mente riconosce come un motivo universale."
La lettera di Baumer fu per Wertheimer una sorta di catalizzatore. Nei mesi successivi, lo psicologo iniziò a frequentare assiduamente musei e gallerie d'arte, osservando con grande attenzione il comportamento dei visitatori. Durante una di queste visite, si trovò di fronte a un'opera di Kandinsky: notò che, nonostante la sua apparente complessità, il quadro sembrava suscitare una risposta immediata nei visitatori. Si domandò se fosse l'uso di colori o la disposizione delle forme a rendere l'opera così "piacevole" e immediatamente apprezzata dal pubblico.
"È come una melodia che conosciamo già," pensò Wertheimer, un'intuizione che lo spinse a considerare come la nostra mente possa essere predisposta a trovare bellezza in ciò che risuona e riverbera come un elemento familiare. Settant’anni più tardi, dopo una lunga tradizione di studi sulla percezione estetica e la psicologia cognitiva, le sue idee troveranno un solido riscontro nelle ricerche condotte da Rolf Reber, Norbert Schwarz e Piotr Winkielman che nel 2004 hanno formalizzato la Processing Fluency Theory, un modello teorico che ho ampiamente applicato per scrivere l’incipit di questo articolo.
Ecco, per capirci, tutta la storia su Wertheimer, la lettera di Baumer, l’intuizione davanti al quadro di Kandinsky: non è mai successo nulla del genere. Il racconto, per quanto “plausibile”, è frutto della mia fantasia. Attenzione, è vero che la psicologia della Gestalt (di cui Wertheimer è uno dei padri fondatori, insieme a Wolfgang Köhler e Kurt Koffka) ha ampiamente studiato il rapporto percettivo che s’instaura fra opera e spettatore, ma affermare che esista un collegamento diretto fra psicologi gestaltici e la Processing Fluency Theory è una forzatura concettuale. Perché tutta questa “sceneggiata”, allora? Per dimostrare che la teoria di Reber, Schwartz e Winkielman, formulata nei primi anni 2000, è attualissima e concreta, e le sue applicazioni in ambito estetico (di cui parleremo fa un attimo) sono davvero molteplici.
Ora, la “teoria della fluidità di elaborazione” è un modello psicologico che spiega perché troviamo alcune esperienze più piacevoli di altre, basandosi sulla facilità con cui le informazioni vengono elaborate dal nostro cervello. La teoria suggerisce che gli stimoli che sono facilmente processabili risultano più gradevoli rispetto a quelli complessi, eterogenei, ambigui. Il piacere estetico, di conseguenza, è definito in funzione delle dinamiche cognitive del percettore e non come qualità oggettiva dello stimolo. Il termine processing fluency si riferisce all'esperienza metacognitiva di facilità o difficoltà con cui nuovi dati vengono elaborati, in riferimento alla percezione (quasi sempre inconscia) del proprio flusso cognitivo: nei giudizi di preferenza un alto grado di fluency corrisponde a un alto grado di preferenza. Ciò avviene perché l'esperienza della “fluidità” è accompagnata da sensazioni tendenzialmente positive.
Torniamo all’incipit dell’articolo: l'aneddoto su Max Wertheimer e la lettera è una tecnica di storytelling basata su uno schema narrativo tanto semplice quanto diffuso, al quale – e qui veniamo alla processing fluency – siamo largamente abituati. Gli aneddoti personali, per intenderci, creano immediatamente una connessione emotiva con il lettore; anche se fittizia, la storia evoca un'epoca ricca di fermento intellettuale, in cui si inserisce un “motore narrativo” (la lettera) che ricalca uno schema in cui un singolo dettaglio rompe l’equilibrio del testo, e instilla un dubbio che sentiamo la necessità di voler chiarire. Iniziare un racconto con un elemento misterioso stimola la curiosità del lettore che perde di vista il “sottotesto” scientifico dell’articolo: nei primi paragrafi, il vostro obiettivo non era approfondire una complessa teoria psicologica, ma risolvere un mistero. È una meccanica narrativa presente in milioni di fiabe, romanzi, film e documentari: siamo talmente abituati a questo schema che lo elaboriamo cognitivamente con estrema fluidità, aumentando il piacere “estetico” insito nella fruizione del contenuto.
Esiste una vasta letteratura che dimostra come, in un’infinita varietà di campi, gli stimoli elaborati con difficoltà tendono a essere valutati in modo negativo, mentre la valutazione di stimoli di facile elaborazione cognitiva subisce – viceversa – un'influenza positiva. Qualche esempio: i titoli azionari con nomi difficilmente pronunciabili vengono considerati meno competitivi sul mercato (Alter e Oppenheimer, 2006); gli aforismi che utilizzano forme linguistiche facili da elaborare tendono a essere considerati più veri (McGlone e Tofighbakhsh, 2000); addirittura, il semplice fatto di essere esposti ripetutamente a un’asserzione incrementa la facilità con cui viene elaborata e, di conseguenza, la possibilità che tale asserzione venga considerata vera (Reber e Unkelbach, 2010), che a pensarci è il principio degli slogan politici o dei claim pubblicitari, né più né meno.
Anche l’arte, ovviamente, è stata oggetto di studio. Anzi – per riprendere l’incipit – tutto nasce da lì. Malgrado Wertheimer non abbia mai avuto alcuna illuminazione osservando un quadro di Kandinsky, per tutto il ‘900 l’estetica e la psicologia si sono intrecciate ripetutamente nel tentativo di individuare una risposta scientificamente accurata rispetto al modo in cui valutiamo e percepiamo la “bellezza” artistica. Uno degli esperimenti chiave nella comprensione della Processing Fluency Theory è stato condotto da Rolf Reber e dai suoi colleghi nel 2004. Lo studio coinvolgeva un campione di partecipanti universitari, scelti per la loro familiarità con i compiti di valutazione estetica e la disponibilità a partecipare a studi psicologici, ai quali è stato mostrato un insieme di immagini progettate per variare in termini di complessità. L'esperimento era diviso in due fasi principali: nella fase iniziale, la facilità di elaborazione veniva manipolata attraverso il contrasto visivo. Alcuni stimoli venivano presentati con un alto contrasto (per renderli più o meno visibili); contestualmente, anche il tempo di esposizione agli stimoli variava: alcuni partecipanti vedevano gli stimoli per un breve periodo, altri per un periodo più lungo.
Nei test, replicati con numerosi gruppi differenti per assicurare l’attendibilità dell’esperimento, sono stati implementati controlli rigorosi per garantire che altri fattori soggettivi, come la preferenza individuale per certi tipi di immagini, non influenzassero i risultati. Cosa è emerso? Che gli stimoli presentati con alto contrasto (e quindi più facili da elaborare) venivano valutati come significativamente più piacevoli rispetto a quelli con basso contrasto. Allo stesso modo, i soggetti trovavano gli stimoli esposti per periodi più lunghi più piacevoli rispetto a quelli esposti per periodi brevi. Oltre alle valutazioni estetiche, ai partecipanti è stato chiesto di giudicare la loro facilità di elaborazione degli stimoli, per verificare se percepissero differenze nella fluency: sorprendentemente, quasi tutte le persone si sono dimostrate coscienti della loro attività cognitiva.
Una lettura superficiale dell’esperimento può indurci a pensare che la “bellezza” percepita in un’opera dipenda dalla sua semplicità. Non è così: le opere complesse possono essere largamente apprezzate; la PFT suggerisce soltanto che esse richiedono un diverso tipo di engagement cognitivo, spesso supportato da una comprensione del contesto o una conoscenza pregressa dell'arte. Ogni linguaggio artistico possiede una grammatica che, seppur apparentemente complessa, diventa più piacevole man mano che l'osservatore si abitua a interpretarne il “codice” di funzionamento interno. Questo concetto è stato esplorato nel 2005 da Halberstadt e Winkielman, che hanno scoperto che gli stimoli visivi ambigui diventano più piacevoli quando vengono ripetuti. L'esposizione reiterata riduce lo sforzo cognitivo necessario per elaborare l'informazione, aumentando la familiarità e la piacevolezza percepita.
C’è, ovviamente, molto di più. Secondo il modello di elaborazione estetica visiva proposto da Leder, Belke, Oeberst e Augustin, l'esposizione a uno stimolo artistico fornisce al percettore una situazione di sfida per la mente: in pratica, per superare l’ostacolo percettivo, l’osservatore deve classificare, comprendere e padroneggiare l'opera cognitivamente. È il successo in questo processo a fornire la motivazione a ricercare una ulteriore esposizione a stimoli artistici. Con il tempo, questo genere di motivazione incrementa l'interesse verso l'arte in generale: ciò spiega perché alcune persone si allontanano dalla fruizione artistica, mentre altre si appassionano sempre di più. Per Kubovy, inoltre, le emozioni che caratterizzano i piaceri della mente, di cui fa necessariamente parte il piacere estetico, emergono quando le nostre aspettative vengono tradite, e gli errori nelle “anticipazioni” si trasformano in uno stimolo per la ricerca di nuove interpretazioni. Questo, almeno in parte, spiega il successo planetario delle avanguardie e di tutti i movimenti “di rottura” che si sono susseguiti nel corso della storia.
Se da un lato, dunque, apprezziamo stimoli di facile elaborazione, dall'altro apprezziamo stimoli che presentano una sfida cognitiva sia per la nostra percezione sensoriale che per la nostra comprensione. A leggere questa dicotomia da una prospettiva bioevolutiva, entrambi i comportamenti possiedono una fondamentale qualità adattativa. Il vantaggio nell'apprezzare stimoli di facile elaborazione sta nel fatto che la familiarità viene spesso associata alla “sicurezza”, e che la percezione di facilità di elaborazione è spesso indice del successo di tale operazione. Viceversa, l'effetto positivo dell'apprezzare stimoli difficili da elaborare è che ci induce un comportamento esplorativo, essenziale per l'acquisizione di nuove conoscenze.
L’arte, in definitiva, è una vera e propria “palestra” per la nostra mente. E la teoria della processing fluency – complementare, e non opposta, al piacere intrinseco alle sfide cognitive – dimostra che possiamo “allenarci alla complessità”. In un periodo storico caratterizzato da un’overdose di informazioni, dove la proliferazione di slogan e fake news può orientare scelte politiche e sociali di fondamentale importanza, la percezione estetica si riscopre un fattore cruciale per affrontare consapevolmente un’infosfera satura di stimoli, fra cui è difficilissimo trovare e riscoprire un reale “valore”. Tutto sembra ridursi a uno sterile rumore di fondo, incapace di produrre significato: al contrario, però, l’arte può ancora farlo. Attraverso la fruizione estetica possiamo imparare ad accogliere la complessità della nostra realtà e, poco alla volta, muoverci agilmente in un mondo iper-connesso e iper-complesso. A patto, questo è ovvio, che l’arte ritorni davvero a far parte delle nostre vite.
Creativo, docente ed esperto di cultura visiva, Alessandro Carnevale lavora da diversi anni in TV e ha esposto le sue opere in tutto il mondo. Nel 2020, la Business School de Il Sole 24 Ore lo ha inserito tra i cinque migliori content creator italiani in campo artistico: sui social media si occupa di divulgazione culturale, coprendo un ampio spettro di discipline, tra cui la psicologia della percezione, la semiotica visiva, la filosofia estetica e l'arte contemporanea. Ha collaborato con diverse testate, pubblicato saggi e scritto una serie di graphic novel insieme al fisico teorico Davide De Biasio; è direttore artistico di un museo all'aperto. Oggi, come consulente, lavora nel mondo della comunicazione, della formazione e dell'educazione.