
Marion Baruch al Museo Novecento di Firenze
“Un passo avanti tanti dietro” è la più ampia mostra dedicata all’artista Baruch in Italia: un percorso esistenziale e creativo che attraversa il Novecento, dal trauma dell’esilio alla libertà della forma.
Spirito libero e audace, infaticabile indagatrice di quasi un secolo di storia. A Marion Baruch (Timisoara, 1929), artista la cui energia dinamica si è tradotta in creatività senza riserve, il Museo Novecento di Firenze dedica la retrospettiva “Un passo avanti tanti dietro” (il titolo trae ispirazione da un’opera in tessuto di recente produzione). La mostra, a cura di Sergio Risaliti e Stefania Rispoli, è la più estesa mai realizzata in un’istituzione italiana e occupa oltre al primo piano del museo anche gli spazi di Manifattura Tabacchi e di Polimoda, che hanno generosamente collaborato alla realizzazione del progetto espositivo.
L’esistenza di Baruch ha attraversato tutto il “secolo breve”, facendole conoscere le contraddizioni e l’orrore dei regimi totalitaristi e con essi la guerra e le deportazioni di massa. Unico conforto il disegno, praticato ogni giorno, sin da piccola, anche da esule nelle campagne romene. “Verso i miei 13 anni ci siamo rifugiati un’estate dai bombardamenti in città. Tutte le notti, dagli alleati salvatori invocati, alla campagna presso i contadini. Senza acqua corrente né elettricità, unico cibo polenta e latte o una cipolla. Era il periodo più felice della mia infanzia: il lavoro nei campi con i contadini, la piccola stanza con i pesanti mobili scolpiti e i ricami colorati del folklore romeno, mi davano felicità. Ho incominciato a disegnare tutti i giorni e sentivo che non avrei smesso”.

Formatasi dapprima all’Accademia di Bucarest e poi a Gerusalemme, alla Bezalel Academy of Arts and Design, Baruch arriva a Roma verso la metà degli anni Cinquanta per poi trasferirsi definitivamente a Gallarate negli anni Settanta. Nella città italiana, legata al contesto dell’industria tessile, stabilisce la sua dimora e il suo atelier, che abbandona solo durante il periodo parigino, tra il 1993 e il 2010, in cui si dedica anche a progetti di arte relazionale. Dopo essersi interessata alla scultura, alla performance e agli happening, dal 2012 sono i lacerti di tessuto il nodo centrale intorno al quale ruota la sua indagine. “Aver cambiato il mio modo di vivere per immergermi in ciò che accade intorno a me, socialmente e artisticamente, fino al punto di annullare le barriere… questa è la mia mutazione profonda, la mia rivoluzione personale”.
Poliedrica e inesauribile, Baruch utilizza una varietà di media per indagare temi quali il lavoro, la migrazione, il femminismo, il patriarcato, la società dei consumi e internet. Ma è anche il linguaggio, del quale scopre presto la potenza, a destare il suo interesse. Cittadina del mondo, “mi sento di casa ovunque e con chiunque”, cresce a cavallo tra le due guerre nell’antagonismo odioso tra ungheresi e romeni. Salvo scoprire da adulta che, mentre i due popoli si facevano la guerra, l’amore scorreva tra le loro due lingue. La parola “tra” assume nella sua pratica consistenza solida. Affascinata dalle cose che stanno nel mezzo, nello spazio modellabile della metamorfosi, riconosce nel tragitto che intercorre tra sé e l’altro da sé un momento estremamente creativo, che apre la porosità dell’opera all’innovazione, allo sconosciuto, all’ignoto.
Senza necessariamente seguire un ordine cronologico, l’esposizione (visibile sino all’8 giugno 2025), raccoglie una selezione di lavori che danno conto delle diverse tappe dell’evoluzione dell’artista. A cominciare da quella che la vede, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, partecipe della complessa stagione femminista. Il corpo si fa materia dell’arte e Baruch sperimenta con sculture ibride, pensate per essere attivate dalla presenza fisica. Nasce in questo periodo l’iconico Abito Contenitore (1969-1970), oggetto che l’artista abita, indossandolo, prima per le vie di Milano e poi in studio, fotografata da Berengo Gardin. Il percorso prosegue con le sculture performative e con le opere realizzate con designer come AG Fronzoni e Dino Gavina, ma consente anche di approfondire la collaborazione con la Galleria Luciano Inga Pin di Milano, dove i “monitor" e i “super/art” prodotti a partire dalla metà degli anni Ottanta grazie alla collaborazione con la falegnameria di Paolo Baj, aprono al tema del vuoto, cruciale nella sua poetica. Dal 1990 inizia a firmare la sua produzione artistica come NAME DIFFUSION. Un’impresa fittizia, ma regolarmente iscritta alla Camera di Commercio di Varese, che intende sovvertire il concetto di autorialità, tanto caro al sistema dell’arte, e che sollecita una riflessione su questioni come il legame tra arte e società, tra spazio e memoria, tra lavoro e valore, tra consumo, corpo e produzione. Seguono il periodo parigino, con le opere relazionali e partecipative create in collettivo e infine i lavori in tessuto realizzati dopo il Duemila, per i quali è maggiormente nota a livello internazionale.

“Per me il tessile è un qualcosa che vive e palpita, ne sento l’ineffabilità del respiro o il suo flusso, un flusso continuo che è anche quello dell’intera società, riflette la storia dell’umanità e, allo stesso tempo, la dimensione sociale del lavoro”. Con gli avanzi di stoffa, muovendo una critica nemmeno troppo velata alla sovrapproduzione e allo spreco conseguenti le abitudini di consumo, Baruch dà vita a sottili composizioni scultoree, che si nutrono dell’armonia dei vuoti e dei pieni, non in lotta ma in esaltazione reciproca. A guardarle tutte insieme, raccolte in questa occasione espositiva che finalmente rende merito alla sua incessante ricerca, sembrano fluttuare in un tempo sospeso e in uno spazio senza ingombro e senza materialità. Se la declinazione ultima del suo lavoro si potesse sintetizzare in una sola parola, si direbbe poesia. Non soltanto per l’attitudine, lunga una vita, di andar sperimentando, ma anche perché - scriveva Paul Celan - le poesie sono dei doni, doni per chi sta all’erta. Doni che implicano un destino.
Immagine di copertina:
Marion Baruch working in her studio, 2024 ph. Peter Colombo
Critica d’arte e curatrice, scrive per riviste italiane e straniere con un focus sull’arte contemporanea e attenzione ai temi della moda, del design e della fotografia. Curatrice indipendente, ha realizzato mostre di fotografia e di arte contemporanea, libri d’arte e cataloghi di mostre. Insegna Storia della Moda e Metodologia del Testo allo IED di Milano, dove è anche consulente per l’area di ricerca artistica. Nel 2014 ha lanciato il suo blog thedummystales.com, destinazione culturale in cui arte e moda dialogano all’unisono, e ininterrottamente, da più di 10 anni.