Dalla proporzione aurea all'intelligenza sociale

L’impatto invisibile dell’arte

Saponette, lenzuola consumate, un cucchiaio in metallo: Jesse Krimes non aveva altro. Lavorava nella penombra, a notte fonda, muovendosi piano per fare rumore. Sotto il materasso aveva nascosto centinaia di ritagli di giornale: raccoglieva volti, soprattutto. Foto segnaletiche che accompagnavano gli articoli di cronaca nera. Oppure paesaggi, immagini di un mondo che esisteva solo aldilà delle sbarre e delle mura in cemento armato che lo circondavano da più di un anno. Di giorno rubava il gel per capelli di qualche altro detenuto. Ogni tanto lo beccavano, ma quando spiegava a cosa gli serviva lo prendevano per pazzo, e lo lasciavano in pace. Di notte, quando tutti gli altri dormivano, pressava col cucchiaio le immagini sulle saponette ricoperte di gel. Lentamente le foto si trasferivano sulla superficie biancastra, lasciando una traccia eterea, quasi invisibile. Ma bella, a suo modo.

Dopo qualche mese di esperimenti decise di passare alle lenzuola. Il rischio di essere scoperto aumentava, e con esso il tempo necessario a imprimere le immagini dai ritagli alla stoffa. Mezz’ora per ritaglio, a volte anche di più. Le nuove “tele” erano più ingombranti, sempre più difficili da nascondere. Ma Jesse era audace. Aveva trovato un paio di guardie disposte ad aiutarlo, forse per pietà, forse per condividere un’impresa memorabile. Forse, semplicemente, per ammazzare la noia. Nell’arco di un anno, riuscì a spedire clandestinamente decine di tele all’esterno, per raccoglierle e riunirle insieme in un unico lavoro, una volta uscito dal penitenziario. È così che nasce l'opera monumentale Apokaluptein:16389067, composta da 39 pannelli realizzati sulle lenzuola fornite dalla prigione. Il titolo deriva dal termine greco "apokaluptein", che significa letteralmente "rivelare", e dal numero di identificazione di Krimes nel Federal Bureau of Prisons, 16389067.

Apokaluptein:16389067 © ​Jesse Krimes Apokaluptein:16389067 © ​Jesse Krimes

Apokaluptein:16389067 è stata esposta in diverse sedi, tra cui il Zimmerli Art Museum della Rutgers University, dove è stata presentata come una potente critica alla cultura delle merci che alimenta comportamenti criminali e al sistema che punisce la trasgressione senza cercare la riforma. Oggi Krimes – sì, è il suo vero cognome – è un artista internazionale decisamente affermato: dopo aver scontato la sua condanna per detenzione e spaccio di droga è riuscito ad esporre le sue opere in istituzioni di assoluto prestigio come il MoMA PS1, il Philadelphia Museum of Art e il Palais de Tokyo.

Apokaluptein:16389067, Installazione MoMA PS1, © ​Jesse Krimes Apokaluptein:16389067, Installazione MoMA PS1, © ​Jesse Krimes

La sua è solo una delle tante storie di detenuti che hanno trovato nell’arte la via del riscatto. Jimmy Boyle, su tutti, è forse l’artista dal passato criminale più celebre al mondo: nato e cresciuto a Gorbals, uno dei quartieri più violenti di Glasgow, da giovane si era guadagnato la tetra reputazione di "gangster più temuto di Scozia". Condannato all’ergastolo per omicidio nel 1967, la detenzione fra le mura della prigione di Barlinnie ha segnato inesorabilmente la sua vita. In meglio, si direbbe. Nello spazio claustrofobico dell’isolamento – in cui spesso veniva confinato – ha cominciato a esplorare la creatività come una via di fuga mentale e spirituale. Grazie a programmi di riabilitazione e al sostegno di alcuni educatori progressisti, gli è stata offerta la possibilità di accedere a materiali artistici. Dopo un’iniziale fase di rigetto, Boyle ha iniziato a scolpire utilizzando gli strumenti più semplici: pezzi di legno, frammenti metallici e scarti recuperati dai magazzini del carcere. I materiali grezzi e improvvisati riflettevano la crudezza della sua esperienza, ma sotto le sue mani si trasformavano – paradossalmente – in sculture che parlavano di umanità, dolore e aspirazione alla libertà.

Scultura di Jimmy Boyle Scultura di Jimmy Boyle

Le sue opere trasmettono una sintesi perfetta tra sofferenza e desiderio di redenzione. Ogni creazione sembra mostrare il lato vulnerabile di un uomo che, per tutta la sua vita, era stato definito solo dalla violenza. Boyle scolpisce figure umane distorte, espressioni drammatiche che evocano un’intensa introspezione, in cui riverbera un’eco di speranza. Nonostante le limitazioni fisiche e materiali del carcere, la sua arte si è progressivamente guadagnata l'attenzione della critica e del pubblico esterno. Dopo la scarcerazione negli anni '80, Jimmy ha continuato a esplorare e sviluppare la sua arte, partecipando a innumerevoli esposizioni e promuovendo, come attivista, una riforma carceraria. Le sue sculture sono diventate i simboli di un percorso di riscatto – un’intima testimonianza del potere dell’arte che permette a chiunque di lasciare una traccia di “bellezza”, trasformando – perché no – un intero percorso di vita.

Scultura di Jimmy Boyle Scultura di Jimmy Boyle

Ora, esistono innumerevoli esempi virtuosi che dimostrano l’impatto positivo della cultura artistica all’interno di tessuto sociale complesso. E questo, paradossalmente, potrebbe avere un’origine, in qualche misura, “biologica”. Mi spiego: nel 2007, Di Dio e Rizzolatti, due neuroscienziati italiani, hanno condotto uno studio che ha portato il Doriforo di Policleto, simbolo della bellezza classica, dai musei ai laboratori di ricerca. La scultura, celebre per le sue proporzioni perfette basate sulla proporzione aurea, è stata utilizzata per indagare la percezione della bellezza “oggettiva” nel cervello umano. I partecipanti – 14 persone senza alcuna competenza artistica specifica – sono stati monitorati con la risonanza magnetica funzionale durante l’osservazione di tre diverse immagini della scultura: una era quella originale, mentre le restanti due erano state modificate per alterate artificialmente le proporzioni della figura. 

I risultati hanno mostrato che la visione del Doriforo nella sua forma originale attivava i lobi frontali – soprattutto l’area ventromediale – con un’alta intensità. Quando i partecipanti osservavano la versione distorta, invece, le reazioni in queste aree erano quasi impercettibili, mentre risultavano evidenti l’attivazione dell’insula e, seppur debolmente, anche le aree premotorie del lobo frontale, anteriormente alla corteccia motoria primaria. Ciò suggerisce che il cervello riconosce in modo “innato” e risponde positivamente a stimoli visivi che seguono proporzioni armoniose, indipendentemente dal retroterra culturale dei partecipanti.

In altre parole, la bellezza del Doriforo viene percepita come intrinsecamente piacevole e "corretta" anche a livello neurologico. Per completezza, è giusto specificare che l’esperimento ha dimostrato che il riconoscimento innato delle forme proporzionate non coincide necessariamente con una preferenza estetica. Quando è stato chiesto ai partecipanti di scegliere la versione che preferivano, infatti, nei loro cervelli si è attivata la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC), un’area cerebrale coinvolta nel processo decisionale, nella valutazione critica e nell'inibizione di risposte emotive immediate. In buona sostanza, nel momento in cui i partecipanti dovevano esprimere un giudizio consapevole sull'opera, l'attivazione della DLPFC riflette l'analisi cognitiva e razionale dell'estetica, che va oltre il semplice riconoscimento dell’armonia interna alle forme: di fronte a una richiesta specifica, dunque, entrano in gioco processi cognitivi superiori che modulano l’esperienza estetica in modo estremamente complesso.

Schema cervello umano Schema cervello umano

L’aspetto più affascinante, tuttavia, è un altro. Durante l’osservazione delle opere volutamente sproporzionate, come accennavo, nel cervello dei partecipanti all’esperimento si è riscontrata una debole – ma non per questo trascurabile – attivazione delle aree premotorie. È possibile che analizzando visivamente proporzioni anomale o "sbagliate" il cervello tenti di compensare o “correggere” mentalmente la figura, richiamando meccanismi di simulazione motoria. Le aree premotorie, infatti, sono coinvolte nella pianificazione del movimento, ma svolgono contestualmente un ruolo nel riconoscimento delle forme familiari: la loro attivazione potrebbe dunque indicare una sorta di “sforzo” del cervello nell'elaborare immagini che risultano incongruenti con le aspettative percettive.

Ma non è tutto: l’attivazione delle aree premotorie riflette anche una risposta istintiva che prepara il corpo al combattimento o alla fuga, sostenuta dalla produzione di molecole neuroattive che determinano e stimolano una risposta “violenta”. Al contrario, l’osservazione di immagini armoniche predispone il cervello alle funzioni cognitive superiori della creatività e del pensiero astratto. Correlando i risultati dello studio di Rizzolatti e Di Dio con l’analisi di casi medici di soggetti che riportavano lesioni cerebrali nelle aree predisposte al riconoscimento del “bello” (su tutte, la corteccia orbito frontale inferiore), nei quali si riscontrava la comparsa di comportamenti aggressivi e antisociali, possiamo dedurre che l’osservazione di immagini armoniose, contribuisca in qualche misura a operare un controllo inibitorio sulle aree cerebrali che scatenano reazioni violente. 

Nel 2017, gli scienziati della School Of Social Policy & Practice dell’Università della Pennsylvania hanno pubblicato i risultati di uno studio significativo che ha esaminato l'impatto delle attività artistiche e culturali sui quartieri a basso reddito di grandi città americane, concentrandosi in particolare sulle aree più problematiche di New York. Il progetto ha coinvolto una rete di ricercatori accademici, organizzazioni culturali locali, amministrazioni pubbliche e istituzioni educative, collaborando con attori come il Dipartimento dell'Istruzione di New York e associazioni no-profit impegnate nella promozione delle arti come strumento per il cambiamento sociale. L'obiettivo era valutare se e come la presenza di attività culturali in specifiche comunità potesse influenzare fattori socioeconomici come il tasso di criminalità e il successo scolastico.

Il SIAP ha utilizzato una metodologia basata sull'analisi dei dati raccolti in quartieri con vari livelli di partecipazione alle attività artistiche. L’analisi ha integrato dati sociodemografici con informazioni relative a crimini, tassi di abbandono scolastico e risultati accademici. Tra i risultati principali emersi dallo studio, si è rilevato che le aree con una scena artistica più vivace tendevano a mostrare una riduzione significativa dei tassi di criminalità: in tre anni, gli omicidi si sono ridotti del 14%; i crimini violenti del 18%. Non solo: In termini di educazione, le aree con una forte presenza di iniziative culturali vantavano un aumento del 10% nel numero di studenti che raggiungevano risultati significativamente migliori negli esami di letteratura e lingua inglese, arte e matematica. Appare del tutto evidente, dunque, che esista una stretta connessione fra l’esposizione e la partecipazione attiva ad attività artistiche, la contemplazione estetica e un generale miglioramento del tessuto socioculturale in cui tali pratiche sono più diffuse. Ecco: per riassumere quanto discusso fin qui, voglio raccontarvi l’incredibile storia di Phineas Gage. 

Phineas Gage Phineas Gage

Siamo a metà Ottocento. Gage è un caposquadra dei lavoratori ferroviari in Vermont: tutti lo conoscono come un uomo competente, rispettabile e socialmente ben inserito. La sua vita cambia radicalmente il 13 settembre 1848, quando un'esplosione accidentale durante un'operazione di brillamento fa schizzare una barra di ferro lunga circa 1 metro e del diametro di 3 cm attraverso il suo cranio. La barra perfora l'osso zigomatico sinistro, attraversa il lobo frontale sinistro ed esce dalla parte superiore del capo.

Miracolosamente, Gage sopravvive all'incidente e non perde conoscenza. I medici rimangono stupefatti dalla sua capacità di parlare e muoversi subito dopo il trauma – ma col passare del tempo emergono cambiamenti a dir poco drastici nella sua personalità e nel suo comportamento. Phineas diventa irascibile, impulsivo, incapace di fare progetti a lungo termine e di assumersi la minima responsabilità per le sue azioni, sempre più al limite dell’accettabile.

Simulazione del danno di Phineas Gage Simulazione del danno di Phineas Gage

Il suo caso ha dimostrato per la prima volta che esistono aree del cervello che regolano specificamente la personalità e il comportamento sociale. Prima di allora, si sapeva relativamente poco sul ruolo delle diverse regioni cerebrali: il danno al lobo frontale, in particolare alle aree prefrontali e ventro mediali, ha invece reso evidente che queste parti del cervello sono fondamentali per il controllo degli impulsi, la capacità decisionale e la regolazione delle emozioni. In tempi decisamente più recenti, i neuroscienziati Hanna e Antonio Damasio hanno studiato sette pazienti con menomazioni cerebrali simili a quelle di Phineas Cage: ampliando il perimetro della loro indagine, hanno scoperto che nessuno di loro mostrava alcuna reazione consapevole o inconsapevole alla visione di immagini piacevoli (anche artistiche, beninteso) o, viceversa, all’osservazione di immagini orrende. 

La capacità di rispondere a uno stimolo estetico sembra dunque strettamente correlata alla capacità di sviluppare qualunque genere di “emozione sociale”. Se ancora avessimo qualche dubbio sul valore dell’arte nel nostro mondo contemporaneo, sarebbe utile riflettere su questi casi limite – i quali, seppur nella loro assoluta eccezionalità, riescono a fare luce sui più profondi meccanismi neurologici che uniscono, nel bene o nel male, tutti gli esseri umani. 

Immagine di copertina: Doriforo di Policleto

Creativo, docente ed esperto di cultura visiva, Alessandro Carnevale lavora in TV da diversi anni e ha esposto le sue opere in tutto il mondo. Nel 2020, la Business School de Il Sole 24 Ore lo ha inserito tra i cinque migliori content creator italiani in campo artistico: sui social media si occupa di divulgazione culturale, coprendo un ampio spettro di discipline, tra cui la psicologia della percezione, la semiotica visiva, la filosofia estetica e l'arte contemporanea. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche, pubblicato saggi e scritto una serie di graphic novel insieme al fisico teorico Davide De Biasio; è direttore artistico di un museo all'aperto. Oggi, come consulente, lavora nel mondo della comunicazione, della formazione e dell'educazione.

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