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L’arte è morta. Morta e sepolta.

Da circa 200 anni, sembra, almeno a leggere Hegel. E con lui la moltitudine di critici, filosofi e intellettuali che hanno ripreso le sue parole – a volte travisandole, e non poco – per emettere una sentenza apocalittica che suona talmente bene da trasformarsi in uno slogan. Ecco, “slogan”: termine pericoloso, che da solo dovrebbe bastare a mettere in guardia chiunque mastichi un po’ di complessità. Basta slogan, dunque (che suona tanto come uno slogan, me ne rendo conto) – quelli lasciamoli alla politica e al marketing, e proviamo ad analizzare un attimo il senso delle parole.
From Truisms (1977–79), 1982 Installation: Messages to the Public, Times Square, New York, 1982 © 2024 Jenny Holzer, member Artists Rights Society (ARS), NY Photo: John Marchael From Truisms (1977–79), 1982 Installation: Messages to the Public, Times Square, New York, 1982 © 2024 Jenny Holzer, member Artists Rights Society (ARS), NY Photo: John Marchael
L’arte è morta, dicevamo. Bene. Se così fosse, da qualche parte dovrebbe esserci un cadavere su cui effettuare un’autopsia. Le circostanze del presunto decesso sono poco chiare, e aprono altre domande: l’arte è morta per cause naturali? Oppure è stata uccisa? E da chi? Difficilissimo stabilirlo senza un corpo da studiare. Talmente complesso che qualcuno potrebbe iniziare a dubitare dell’esistenza stessa di questa fantomatica arte. L’equazione, dopotutto, è semplice e lineare: se l’arte è morta, e parrebbe proprio di sì, visto che son due secoli che si leggono denunce in merito, allora l’arte è qualcosa di perfettamente definibile, qualcosa che tutti conoscono a priori. In effetti questa è proprio la celia con cui Benedetto Croce riassumeva il suo concetto di Estetica: “l’arte”, diceva, “è ciò che tutti sanno esattamente cosa sia”. E in queste parole riecheggia un sentire comune e collettivo che dona all’arte una dimensione propria e autonoma, la quale, per l’appunto, viene riconosciuta spontaneamente da chiunque la incontri. Mistero risolto, quindi? Non direi.
Giovanni Anselmo, Invisibile Giovanni Anselmo, Invisibile
A rileggere le caotiche traiettorie dell’arte contemporanea – altra parola ambigua, già che ogni forma d’arte dell’umanità è stata contemporanea per chi ha vissuto un certo periodo storico – e il difficile rapporto del pubblico con tali manifestazioni artistiche, la questione si complica sempre di più. Di spontaneo, nel riconoscimento artistico d’un Picasso o di Warhol, giusto per fare due esempi illustrissimi, c’è ben poco. Ora, non avendo qui la pretesa di ripercorrere oltre cent’anni di avanguardie, né d’addentrarmi in una stucchevole lezione di storia dell’arte, l’unica cosa che posso invitarvi a fare, al momento, è ragionare ancora una volta sulle parole. Nel definire la rottura dell’ordine promosso dagli artisti del primo Novecento, ci s’imbatte spesso in una locuzione piuttosto evocativa: avanguardie digerite. Il termine è perfetto per descrivere la fase di elaborazione necessaria al riassorbimento dei moti rivoluzionari avanguardistici all’interno di quel sentire collettivo di cui si parlava prima. La digestione può essere più o meno lunga, ma alla fine qualunque “trasgressione” artistica perde il proprio valore scioccante (e respingente) fino a integrarsi perfettamente nel mercato dell’arte e, poco alla volta, anche nell’immaginario estetico collettivo.
Damien Hirst, The Physical impossibility of Death in someone living Damien Hirst, The Physical impossibility of Death in someone living
Le gallerie e i musei di mezzo mondo, al termine della prassi intestinale, si riempiono di escrementi e corpi in putrefazione. La merda d’artista viene venduta a peso d’oro, le carcasse di Hirst sono battute all’asta per milioni di euro. Si dissolve, così, forse a titolo definitivo, l’idea che l’opera d’arte possieda un valore in sé: non esiste nessuna caratteristica formale sufficiente a creare un discrimine ontologicamente valido per separare l’arte dalla non-arte. Questa è la lezione dell’intero Novecento: un secolo – un secolo! – di sperimentazioni teoriche e concettuali che dovremmo ormai aver ampiamente digerito. Ci tocca tener conto dalla merda, insomma. E cambiare il paradigma crociano: “l’arte”, per dirla con Dino Formaggio, “è tutto ciò che gli uomini decidono di chiamare arte”.
Onestamente non trovo sintesi migliore per descrivere l’intera produzione artistica di ogni epoca storica. Sapete perché? Perché in quel decidono emerge subito la dimensione necessariamente relazionale di ogni forma d’estetica, contemporanea o meno. L’arte è sempre un sistema comunicativo basato sul rapporto fra artista, opera e spettatore. Siamo noi, tutti noi, ad attribuire in modo inequivocabilmente arbitrario il valore simbolico, culturale ed estetico di un oggetto che scegliamo di chiamare “opera”. La deriva relativistica di tale assunto è dietro l’angolo, non lo nascondo. Dire che “l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte” significa, innanzitutto, accettare il presupposto che l’arte possa essere totalmente inutile. Se invece crediamo che l’arte abbia una finalità, ammettiamo implicitamente che in arte esista una scala di valori che rende le opere più o meno valide. Il che mi trova certamente d’accordo, ma chi lo decide? Chi sceglie cosa sia buona arte? Di nuovo: noi. Non basta che io chiami un oggetto arte perché esso lo diventi. Devono esserci altre persone disposte a fare la stessa cosa, e devono essere ugualmente disposte a riconoscergli attivamente un valore. Con tutti i cortocircuiti che questo assunto comporta. Io, o un altro tizio qualunque, non abbiamo lo stesso potere decisionale di un artista o d’un critico affermato. Quando Maurizio Cattelan appende una banana alla parete con lo scotch e un collezionista spende 120.000 dollari per acquistarla, emerge chiaramente tutta la dimensione politica del Sistema dell’arte.
Attenzione, non sto usando il termine “politico” in modo dispregiativo. Comedian di Cattelan è una sintesi eloquente del processo intersoggettivo che determina la percezione valoriale di un’opera: il grande pubblico s’indigna leggendo la notizia dell’acquisto della banana, l’artista (che ha fatto della provocazione la sua cifra stilistica) sorride, l’acquirente e il gallerista sono felici di aver concluso l’affare. L’arte è anche mercato, che ci piaccia o no. L’arte, di nuovo, è un processo politico, in cui tutti siamo invitati a partecipare. E se ci sottraiamo al dibattito, qualcun altro deciderà per noi. La definizione di Formaggio, che difendo, non deve però scivolare in un lassismo permissivo che sminuisca l’arte stessa: al contrario, dovrebbe stimolare l’attivazione di un dibattito teorico e una ricerca incessante di nuove soluzioni creative. Dovrebbe almeno ribadire al pubblico la propria forza, determinando una fruizione consapevole e meno passiva: tutte imprese ben più difficili e certamente più “utili” del pretendere di stabilire a tavolino cosa sia o non sia arte, creando delimitazioni che in fondo saranno sempre opinabili.
L’equivoco della profezia hegeliana della morte dell’arte va infine smentito, o quantomeno corretto, una volta per tutte. Il filosofo, a cavallo fra Sette e Ottocento, parlava di una decrescente centralità dell’arte nel sentire delle successive età storiche, senza mai scadere in una sentenza tanto definitiva. L’arte non è morta: piuttosto sono stati sostituiti gli esseri umani che la tengono in vita. Ma sostituiti da chi? Da un pubblico ripartito in due anime. Una nicchia, minoritaria e (talvolta) compiaciuta di appassionati, addetti ai lavori e collezionisti, direttamente coinvolti nel mondo dell’arte contemporanea; e una massa silenziosa di disillusi e disinteressati, che ancora non hanno digerito i ready made di Duchamp o i tagli di Fontana. Senza volerlo, sottraendosi al dibattito collettivo, questi ultimi offrono un enorme potere decisionale ai primi che – anche a suon di assegni milionari – foraggiano un Sistema sempre più distante dalla vita quotidiana, eliminando ogni percezione del valore dell’arte, aldilà delle cifre esorbitanti che ogni tanto vengono rilanciate sui giornali dopo qualche asta da Christie’s.
Dino Formaggio

Dino Formaggio

Santiago Sierra, L’abbeveratoio

Santiago Sierra, L’abbeveratoio

Banksy, Love is in the bin

Banksy, Love is in the bin

Due attiviste di Just Stop Oil imbrattano i Girasoli di Van Gogh

Due attiviste di Just Stop Oil imbrattano i Girasoli di Van Gogh

Quand’è stata l’ultima volta che si è parlato d’arte contemporanea anche al bar? Forse nel 2019: di nuovo, penso alla banana di Cattelan. David Datuna ne ha staccata una e l’ha mangiata in pubblico, malgrado il suo costo proibitivo. Su Instagram è diventato famoso come the hungry artist: l’opera, dopotutto, era stata pensata per essere sostituibile. Una performance – sono sicuro – che ha compiaciuto la stragrande maggioranza delle persone che in Comedian non percepiva alcuna artisticità. Al contrario, gli attivisti di “Just Stop Oil” che imbrattano un Van Gogh (o meglio, il vetro che protegge l’opera) sembrano irritare enormemente le folle, malgrado la causa per cui si battono sia condivisibile e alquanto urgente. Non solo: sul piano simbolico, versare della vernice sui vetri che proteggono i capolavori della storia dell’arte richiama l’impossibilità della creazione artistica in un mondo che va verso l’autodistruzione. Se ogni artista deposita nell’opera la speranza di sopravvivere a sé stesso, il pubblico – qui inteso davvero come umanità, nella sua interezza – dovrebbe perlomeno preoccuparsi di assicurarsi un futuro per poter godere di tali creazioni. Eppure la gente s’indigna, a dimostrazione che l’arte possiede ancora un enorme valore simbolico, culturale e cultuale.

Ecco, pendiamo i Girasoli imbrattati: chi ha deciso d’inscrivere l’arte di Van Gogh fra i patrimoni dell’umanità? Noi. L’umanità stessa. E non è stato certo un processo facile. Vincent ha venduto un solo dipinto in tutta la sua vita. Per anni le sue opere sono state largamente disprezzate: i Girasoli sono sempre gli stessi, è il pubblico a essere cambiato, al netto del processo politico (nel senso più genuino del termine) che ha permesso all’opera di assorbire e contemporaneamente emanare quella stratificazione di significati affettivi, formali, qualitativi, mitici e simbolici che percepiamo violati dalla zuppa lanciata dagli attivisti. L’arte non è morta. Certamente, però, è agonizzante. Incide pochissimo nella vita delle persone. Le quali, forse per sfinimento, scelgono di non decidere – per citare un’ultima volta Dino Formaggio – che cosa chiamare arte. È possibile rovesciare il paradigma? Io credo di sì. L’arte deve invadere il presente, assediare l’esistenza, presidiare spazi ancora inesplorati. Deve tornare nella vita della gente. Perché slegata dalla vita, l’arte, è nel migliore dei casi nulla più di un semplice oggetto.


Immagine di copertina: Maurizio Cattelan, Comedian

Creativo, docente ed esperto di cultura visiva, Alessandro Carnevale lavora in TV da diversi anni e ha esposto le sue opere in tutto il mondo. Nel 2020, la Business School de Il Sole 24 Ore lo ha inserito tra i cinque migliori content creator italiani in campo artistico: sui social media si occupa di divulgazione culturale, coprendo un ampio spettro di discipline, tra cui la psicologia della percezione, la semiotica visiva, la filosofia estetica e l'arte contemporanea. Ha collaborato con diverse testate giornalistiche, pubblicato saggi e scritto una serie di graphic novel insieme al fisico teorico Davide De Biasio; è direttore artistico di un museo all'aperto. Oggi, come consulente, lavora nel mondo della comunicazione, della formazione e dell'educazione.

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